Le sorelle Garmendia — Roberto Bolaño

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(...) Pochi giorni dopo ci furono il golpe militare e lo sbando.
Una sera chiamai per telefono le sorelle Garmendia, senza alcun motivo speciale, semplicemente per sapere come stavano. Ce ne andiamo, disse Veronica. Con un nodo nello stomaco domandai quando. Domani. Malgrado il coprifuoco insistetti per vederle quella sera stessa. L'appartamento in cui le due sorelle vivevano da sole non era troppo lontano da casa mia e inoltre non era la prima volta che non badavo al coprifuoco. Quando arrivai erano le dieci. Le Garmendia, con mia sorpresa, stavano prendendo il tè e leggendo (presumo che mi aspettassi di trovarle in mezzo a un caos di valigie e piani di fuga). Mi dissero che se ne andavano, ma non all'estero bensì a Nacimiento, un paese a pochi chilometri da Concepción, a casa dei loro genitori. Che sollievo!, dissi, pensavo partiste per la Svizzera o qualcosa del genere. Sarebbe troppo bello, disse Angélica. Poi parlammo degli amici che non avevamo visto da giorni, facendo le congetture tipiche del momento, quelli che di sicuro erano stati arrestati, quelli che probabilmente erano passati nella clandestinità, quelli che venivano ricercati. Le Garmendia non avevano paura (non avevano motivo di averne, erano solo studentesse e il loro vincolo con gli allora cosiddetti «estremisti» si limitava all'amicizia personale con alcuni militanti, soprattutto della Facoltà di Sociologia), ma se ne andavano a Nacimiento perché Concepción era diventata impossibile e perché, lo ammisero, tornavano sempre alla casa paterna quando la «vita reale» acquisiva tratti di certa laidezza e di certa brutalità profondamente sgradevoli. Allora dovete andarvene subito, dissi loro, perché mi sembra che stiamo entrando nel campionato mondiale della laidezza e della brutalità. Si misero a ridere e mi dissero di andare via. Io insistetti per rimanere ancora un po'. Ricordo quella sera come una delle più felici della mia vita. All'una del mattino Veronica mi disse che era meglio se mi fermavo a dormire lì. Nessuno aveva cenato sicché andammo tutt'e tre in cucina e preparammo uova alle cipolle, pane fresco e tè. Mi sentii all'improvviso felice, immensamente felice, capace di fare qualsiasi cosa, pur sapendo che in quei momenti tutte le cose in cui credevo stavano colando a picco per sempre e che molta gente, fra cui più di un amico, veniva braccata e torturata. Ma io avevo voglia di cantare e di ballare e le brutte notizie (o le elucubrazioni sulle brutte notizie) contribuivano solo ad aggiungere altra legna al fuoco della mia allegria, se mi è concessa l'espressione, di cattivo gusto quant'altre mai, che però esprime il mio stato d'animo e mi azzarderei persino ad affermare che esprime pure lo stato d'animo delle Garmendia e lo stato d'animo di molti che nel settembre del 1973 avevano vent'anni o giù di lì.
Alle cinque del mattino mi addormentai sul divano. Mi svegliò Angelica, quattro ore dopo. Facemmo colazione in cucina, silenziosi. A mezzogiorno caricarono un paio di valigie nella loro macchina, una Citroen del '68 color verde limone, e partirono per Nacimiento. Non le rividi mai più.
I loro genitori, una coppia di pittori, erano morti prima che le gemelle compissero i quindici anni, credo in un incidente stradale. Una volta vidi una loro foto: lui era bruno e asciutto, con grossi zigomi sporgenti e con un'espressione di tristezza e di perplessità che ha solo chi è nato a sud del Bío-Bío; lei era o sembrava più alta di lui, grassottella, con un sorriso dolce e fiducioso.
Morendo avevano lasciato in eredità la casa di Nacimiento, una casa a tre piani, l'ultimo dei quali era un vasto locale mansardato che le gemelle usavano come laboratorio, di legno e di pietra, nei dintorni del paese, e alcuni terreni vicino al Mulchén che permettevano loro di vivere senza ristrettezze. Spesso le Garmendia parlavano dei genitori (a sentirle Juliàn Garmendia era uno dei migliori pittori della sua generazione sebbene io non abbia mai sentito parlare di lui) e nelle loro poesie non era raro che comparissero pittori smarriti nel sud del Cile, impegnati in un'opera disperata e in un amore disperato. Juliàn Garmendia amava disperatamente Maria Oyarzún? Fatico a crederlo quando ricordo la foto. Ma non fatico a credere che negli anni Sessanta ci fossero persone che amavano disperatamente altre persone in Cile. Mi sembra strano. Mi sembra come un film perduto su uno scaffale dimenticato di una gran-de cineteca. Ma lo do per certo.
A partire di qui il mio racconto si nutrirà fondamentalmente di congetture. Le Garmendia se ne andarono a Nacimiento, alla loro grande casa nei dintorni del paese dove viveva unicamente la loro zia, una certa Ema Oyarzún, sorella maggiore della madre morta, e una vecchia domestica di nome Amalia Maluenda.
Sicché se ne andarono a Nacimiento, e si rinchiusero nella casa e un bel giorno, diciamo di lì a due settimane o un mese (anche se non credo che fosse passato così tanto tempo), arriva Alberto Ruiz-Tagle.
Dev'essere andata in questo modo. In un tardo pomeriggio, uno di quei tardi pomeriggi vigorosi ma al contempo malinconici del Sud, un'auto compare sulla strada di terra battuta, ma le Garmendia non la sentirono perché stavano suonando il piano o erano occupate nel giardino o stavano prendendo legna nel retro della casa insieme alla zia e alla domestica. Qualcuno bussa all'uscio. Dopo diversi colpi la domestica apre ed ecco Ruiz-Tagle. Chiede delle Garmendia. La domestica non lo fa entrare e dice che va a chiamare le ragazze. Ruiz-Tagle aspetta pazientemente seduto su una poltrona di vimini nell'ampia veranda. Le Garmendia, vedendolo, lo salutano con effusione e sgridano la domestica perché non l'ha fatto entrare. Durante la prima mezz'ora Ruiz-Tagle viene subissato di domande. Alla zia, di sicuro, fa l'impressione di un giovanotto simpatico, di bell'aspetto, bene educato. Le Garmendia sono felici. Ruiz-Tagle, naturalmente, viene invitato a cena e in suo onore preparano un pasto adatto all'occasione. Non voglio immaginare cos'hanno potuto mangiare. Forse torta di mais, forse pasticcini di carne, ma no, avranno di sicuro mangiato qualcos'altro. Naturalmente, lo invitano a fermarsi a dormire. Ruiz-Tagle accetta con semplicità. Durante le chiacchiere del dopocena, che si protraggono fino alle ore piccole, le Garmendia leggono poesie davanti al rapimento della zia e al silenzio complice di Ruiz-Tagle. Lui, naturalmente, non legge nulla, si scusa, dice che davanti a tali poesie le sue sono di troppo, la zia insiste, per favore, Alberto, ci legga qualcosa di suo, ma lui non si lascia convincere, dice che è sul punto di concludere qualcosa di nuovo, che finché non l'avrà terminato e corretto preferisce non farlo circolare, sorride, si stringe nelle spalle, dice che no, che gli dispiace, ma no, no, no, e le Garmendia annuiscono, zia, non essere noiosa, credono di capire, innocenti, non capiscono nulla (è sul punto di nascere la «nuova poesia cilena»), ma credono di capire e leggono le loro poesie, le loro stupende poesie dinanzi all'espressione compiaciuta di Ruiz-Tagle (che di sicuro chiude gli occhi per ascoltare meglio) e allo sconcerto, ogni tanto, della zia, Angélica, come fai a scrivere uno sproposito simile?, oppure Veronica, piccola, non ho capito niente, Alberto, vuole spiegarmi cosa significa questa metafora?, e Ruiz-Tagle, sollecito, parlando di segno e di significante, di Joyce Mansour, Sylvia Plath, Alejandra Pizarnik (sebbene le Garmendia dicano no, non ci piace la Pizarnik, volendo dire, in realtà, che non scrivono come la Pizarnik), e Ruiz-Tagle sta già parlando, e la zia ascolta e annuisce, di Violeta e di Nicanor Parra (ho conosciuto Violeta, nella sua tenda, sì, dice la povera Ema Oyarzún), e poi parla di Enrique Lihn e della poesia civile e se le Garmendia fossero state più attente avrebbero visto uno scintillio ironico negli occhi di Ruiz-Tagle, poesia civile, ve la do io la poesia civile, e infine, ormai lanciato, parla di Jorge Càceres, il surrealista cileno morto nel 1949 a ventisei anni.
E allora le Garmendia si alzano, o forse si alza solo Veronica, e cerca nella grande biblioteca paterna e torna con un libro di Càceres, Sulla via della grande piramide polare, apparso quando il poeta aveva solo vent'anni, le Garmendia, forse solo Angélica, una volta avevano parlato di ripubblicare l'opera completa di Càceres, uno dei miti della nostra generazione, sicché non c'è da stupirsi che Ruiz-Tagle l'abbia nominato (sebbene la poesia di Càceres non abbia niente a che vedere con la poesia delle Garmendia; Violeta Parra sì, Nicanor sì, ma non Càceres). E nomina pure Anne Sexton e Elizabeth Bishop e Denise Levertov (poetesse che le Garmendia amano e che qualche volta hanno tradotto e letto al seminario davanti alla manifesta soddisfazione di Juan Stein) e poi tutti ridono della zia che non capisce niente e mangiano biscotti fatti in casa e suonano la chitarra e qualcuno osserva la domestica che a sua volta li osserva, in piedi, nella parte buia del corridoio ma senza osar entrare e la zia le dice vieni pure, Amalia, non fare la selvatica, e la domestica, attratta dalla musica e dalla baldoria fa due passi, ma non uno di più, e poi cala la notte, si conclude la serata.
Qualche ora dopo Alberto Ruiz-Tagle, anche se dovrei già cominciare a chiamarlo Carlos Wieder, si alza.
Tutti dormono. Lui, probabilmente, si è messo a letto con Veronica Garmendia. Non ha importanza. (Voglio dire: non ne ha più, sebbene in quel momento, per nostra disgrazia, l'abbia senza dubbio avuta). Il fatto è che Carlos Wieder si alza con la sicurezza di un sonnambulo e si aggira per la casa in silenzio. Cerca la camera della zia. La sua ombra percorre i corridoi dove sono appesi i quadri di Juliàn Garmendia e di María Oyarzún insieme a piatti e a vari oggetti di artigianato della zona. Wieder, comunque, apre porte con grande cautela. Infine trova la camera della zia, al primo piano, vicino alla cucina. Di fronte, sicuramente, c'è la camera della domestica. Proprio mentre scivola dentro la camera sente il rumore di un'auto che si avvicina alla casa. Wieder sorride e si affretta. Con un balzo è al capezzale del letto. Nella mano destra stringe un pugnale. Ema Oyarzún dorme placidamente. Wieder le sfila il guanciale e glielo preme sul viso. Subito dopo, con un solo taglio, le squarcia il collo. In quel momento l'auto si ferma davanti alla casa. Wieder è già fuori della camera ed entra adesso in quella della domestica. Ma il letto è vuoto. Per un istante Wieder non sa cosa fare: ha voglia di prendere il letto a calci, di fare a pezzi un vecchio cassettone di legno sgangherato su cui stanno ammucchiati i vestiti di Amalia Maluenda. Ma è solo un secondo. Poco dopo è sulla soglia, col respiro normale, e fa entrare i quattro uomini che sono arrivati. Questi salutano con un cenno del capo (che comunque denota rispetto) e osservano con sguardi osceni l'interno in penombra, i tappeti, le tende, come se fin dal primo momento cercassero e valutassero i luoghi più adatti per nascondersi. Ma non sono loro che si nasconderanno. Loro cercano chi si nasconde.
E dietro di loro entra la notte nella casa delle sorelle Garmendia. E quindici minuti dopo, forse dieci, quando se ne vanno, la notte se ne esce, subito, entra la notte, esce la notte, efficiente e veloce. E non si troveranno mai i cadaveri, oppure sì, c'è un cadavere, un solo cadavere che verrà ritrovato anni dopo in una fossa comune, quello di Angelica Garmendia, la mia adorabile, la mia incomparabile Angelica Garmendia, ma solo questo, come a riprova del fatto che Carlos Wieder è un uomo e non un dio.


Roberto Bolaño (1953- 2003)

(Dal romanzo Stella distante, Sallerio editrice, 2009, traduzione di Angelo Morino — tratto da Sagarana.net)

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