Dalla Luna sull’Arcobaleno — Adriana Alarco de Zadra

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Un fatto insolito presagì il prossimo arrivo di un essere straordinario. Fu quel pomeriggio, quando il vento portò tanti fiori gialli da tappezzare le piazze con una spessa coltre, le case, i tetti, le strade e le scalinate dei templi di pietra nel centro di questo regno incastonato nella verde immensità della mia Selva nativa. Si finì per doverli raccogliere in grandi ceste e buttarli nel fiume.
Il giorno dopo quel fatto sorprendente, osservai stupefatta scendere sulle acque del vasto fiume la piroga più grande mai vista prima, con larghe vele bianche che chiamavano il vento, che probabilmente era la stessa della quale mi parlava sempre mia madre, Conorì.Quella misteriosa imbarcazione che si ripeteva nei suoi sogni arrivava dalla Luna navigando sul fiume del cielo che è l’Arcobaleno, fino alla terra dei “maragnoni” (1).
In lontananza, i tamburi annunciano gli strani personaggi che navigano in essa. Il tun tun ci avvisa, per i reconditi meandri della selva, che arrivano degli esseri tanto brillanti che solo a guardarli ci accecano quando il sole si riflette sui loro corpi, perché questi riverberano la luce dell’astro come fanno le statue nel tempio della dea. Non ho dubbi che siano gli stessi che dovevano arrivare dalla Luna.

Io vivo nel regno di mia madre, la regina della selva, fra queste montagne, coperte dall’intrico della vegetazione che nasconde il cielo blu; qui mi hanno educato nell’arte della guerra, ad usare l’arco, le frecce, la cerbottana e le fionde, e a cavalcare animali selvaggi, pelosi e dalle zampe cogli zoccoli fessi. Mi sono avvicinata a un posto di guardia per osservare il fiume montando uno di questi animali, per il sentiero soffice di foglie, sicuro, disseminato di gusci di uova di tartarughe e protetto da muretti vegetali su ambo i lati. Di tratto in tratto c’è un postazione di sentinelle ma io non gli devo dare spiegazione dei miei movimenti perché sono Naìn, figlia della regina, e posso andare dove voglio.
Kara, la guardiana del tempio, mi ha avvertito di stare attenta a non imbattermi negli uomini di Couyinco, il potente cacicco in perpetua lotta con le guerriere di mia madre per la supremazia sulle sponde dei fiumi e delle isole. Però io sono astuta e crudele. Se qualcuno di loro mi si accosta, lo stordisco e lo sgozzo colla pietra affilata che ho sempre alla cintura. Non sono mai stata coinvolta in un vero combattimento e l’unica ferita che ho me la sono procurata cadendo da un dirupo, tuttavia non si sa mai quando può esserci battaglia.
Le guerriere, comandate da mia madre Conorì, difendono questo vasto regno, ma io non sono ancora pronta. Presto solo aiuto a preparare i corpi quando sono morti. Gli uomini fatti prigionieri, se non servono per procurare discendenza, si cucinano e si mangiano per poter ereditare la loro forza.

Non credo che potremmo fare lo stesso con gli dèi che arrivano nella grande piroga perché sono fatti di una dura scorza metallica. Ho visto due guerrieri di Couyinco avvicinarsi con cautela all’imbarcazione che si è fermata sulla riva. Le loro frecce rimbalzano sul petto degli dèi e, con frastuono, un raggio di sole li uccide!
Devo avvisare mia madre che il suo sogno e il suo presagio si sono compiuti. Saranno amichevoli? Ma... mi hanno vista! Ne Vedo uno che si avvicina per il sentiero che porta su dal fiume. Preparo la mia lancia affilata e metto una freccia nella cerbottana. Quello brilla come la luna in notte fonda. Porta del cuoio sulle gambe e una lancia in mano, ma non di canna, piuttosto di argento. È uno strano essere che viene probabilmente dal più alto dei cieli. Si esprime in una lingua complicata che non capisco. Mia madre mi ha raccomandato di non parlare con gli uomini, che sono tutti traditori, ma non mi ha detto di non parlare con gli dèi che arrivano dalla Luna sull’Arcobaleno fino al fiume. Mi raggiunge, vuole spingermi in giù lungo il sentiero ma io resisto. Nessuno deve toccarmi, neanche le donne del regno perché io sono Naìn, figlia della regina Conorì. Vedo che aspetta e la sua faccia piena di peli e di cicatrici si trasforma con un sorriso. Non ho paura, allora cammino davanti a lui solo per curiosità. Voglio conoscere quegli esseri che sono giunti dalla Luna.


Vado su quella piroga e osservo gli strani esseri. Uno di loro parla nella mia lingua. Gli fa compagnia un uomo con le piume, ma non è un guerriero e viene da altre terre di questa selva immensa. Sicuramente è stato lui ad avergli insegnato la mia lingua. Quando mi avvicino retrocede pauroso e scappa. L’acqua nella pentola sotto il sole bolle senza fuoco e loro mangiano pappagalli con sapore muschiato. Vedo che hanno pescato un pesce porco.
Ci sono altre tre creature coperte con lamine d’argento e caschi di metallo. Anche se sono dèi, il sudore gli cola sulle guance. Quello che mi parla perché io capisca non ha peli sulla faccia né scorza d’argento ma i suoi capelli sono dorati perciò immagino che deve essere il figlio del Sole.
Una stoffa grossa gli copre le gambe e ha del cuoio sui piedi anche se il caldo è soffocante. Usa una camicia di cotone come non ho mai visto prima. Non sono mai stata così vicino a un uomo vivo, prima d’oggi, anche se è un dio, perché mia madre non mi lascia prender parte alle battaglie e, quando portano maschi al regno, o sono morti o mi nascondono così che non possano guardarmi.
Mi spiega che stanno cercando un luogo dove si trovano pietre preziose e tanti metalli puri come oro e argento, e mi domanda se conosco quel posto chiamato El Dorado. Io sì, so dove si trova, ma non lo dico. è un segreto del regno Conorì. Quando cercano di toccarmi mi difendo e quasi trafiggo un occhio con la lancia a uno di loro. Non mi piace che nessuno mi si avvicini, anche se è un dio.
Da lontano chiedo a quello che parla se loro sono dèi e lui mi risponde che non lo è, allora mi irrito e preparo cerbottana e lancia perché dei maschi non bisogna mai fidarsi giacché anche gli dèi possono essere molto bugiardi.
Mi parla con lentezza e mi spiega che sa che esiste un paese di bellissime donne e che non ha mai smesso di cercarlo. Non gli indicherò la strada senza aver avuto prima il permesso da mia madre.
Mi chiede perché vivo senza altro vestito che il perizoma e le tante collane di semi e fiori. Non capisco quello che vuole e lui mi mostra una lastra di metallo dove si riflette una ragazza come me quando mi guardo nel pozzo d’acqua, con la faccia dipinta con “achiote” rosso contro gli insetti e i capelli (corvini?) annodati e trattati con nera e lucente pomata di “huito”. Mi dice che la lastra si chiama specchio e che quella lì sono io stessa.
È un miracolo! Mi ha sdoppiato e nella visione c’è un’altra come me! Gli strappo la lastra con la mia immagine dalle mani e la butto nel fiume! Mi circondano minacciosi ma io ne prendo uno di loro per il collo; fra risate mi allontanano da lui e mi tolgono lancia e cerbottana. Senza più aspettare, intuisco il pericolo e spicco un balzo per afferrare una liana: volo da un ramo all’altro fra lo schiamazzo delle scimmie e gli stridii degli uccelli, in mezzo al labirinto verde dove sarà difficile che mi seguano. Arrivo sul soffice sentiero e continuo a correre fino alla piazza. Devo raccontare alle donne che gli dèi sono arrivati. Può ben darsi che mia madre mi lasci usare quell’essere che parla nella nostra lingua, se sono arrivata all’età di procreare, per avere un figlio da quello che è venuto dalla Luna.
Quel giorno non ho detto niente perché la mia gente stava celebrando delle vittorie, in un’allucinante catena di riti, e in quei momenti ognuna vive la sua propria solitudine senza commentarla, muta; infatti non si può parlare. Il giorno dopo sono andata giù vicino al fiume a osservare gli dèi ma non ho visto quello con i capelli d’oro. Mi sono ritratta e sono andata nel mio nascondiglio preferito, in una grotta con tante stalattiti che brillano di tutti i colori quando entra per un momento un timido raggio di sole. Sembra una stanza di diamanti e pietre preziose, ma sono visioni immaginarie che riflettono i colori della luce.
Percepisco una presenza che non è delle nostre. Affacciandomi dall’apertura vedo il figlio del Sole che sta arrivando. Come è giunto fino a qui? Mi avrà seguito?
Mi preparo con la freccia sull’arco ma lui s’avvicina senza paura e mi sorride. La freccia Parte e infilzo un serpente ‘cacciatore’ il cui veleno produce la putrefazione della carne e poi la morte in poche ore. Il dio non se ne era reso conto e mi ringrazia.
Allora, con quella voce che assoggetta, mi racconta la storia di Adameva che fece amicizia con un serpente che le regalò le mele; e mentre parla passa le sue dita sulle mie braccia e sui miei seni, e mi accarezza la bocca e il collo con un massaggio così dolce che riempie di fremiti il mio corpo.
In mezzo a quella grotta dei miei sogni più segreti, misteriosa e magica, il figlio del Sole mi sdraia sulla sabbia del suolo e mi possiede con una violenza che non avevo mai immaginato. Abbiamo deciso di tacere quest’esperienza e di incontrarci ancora una volta, e ancora un’altra, di nascosto.
Finché una sera ci amammo con una passione così smisurata che svegliò perfino i morti. Aveva portato uova di tartaruga e c’imbrattammo l’un l’altra fino a quando si alzarono le ombre della sera e le mosche bianche e le formiche volanti ci si appiccicarono addosso.
Passarono i giorni, e io non potevo raccontare la mia esperienza a nessuno. In paese, le guerriere preparavano frecce con grande agitazione. Il dio viveva eternamente tormentato dal desiderio e, nella grotta della felicità, ci abbandonammo a un delirio di piacere che non avrei mai immaginato quando sentivo i gemiti delle donne che si appartavano coi maschi più robusti, più forti e di pelle più chiara dai quali avevano figli. I maschi che nascevano nel regno Conorì erano poi messi su delle zattere affidate alla corrente, che erano bloccate dalla gente che viveva giù, lungo il fiume.



Non avevo mai immaginato una felicità somigliante a quella che sentivo. Vivevo per svignarmela e amare di nascosto questo dio arrivato su una piroga dalla luna, anche se lui ripeteva, protestando, che era arrivato dalla melma.
So che mi osserva attentamente Kara, la guardiana del tempio, trasformata in uccello Camunguì, con speroni sulle ali. Sicuramente vorrebbe sapere per quale ragione giro così sperduta. Una sera mi ha seguito e ce ne siamo resi conto soltanto quando ho sentito i suoi lamenti e le sue grida di donna, non di uccello. Uno degli dèi, quello che aveva cicatrici sulla faccia, l’aveva violentata sul sentiero. Era inaccettabile, e mia madre di sicuro avrebbe preteso la vendetta, perché se una non lo vuole, è proibito unirsi a lei; sono le donne che devono scegliere con chi avere discendenza. per me ed il figlio del Sole Era diverso, perché io lo desideravo con tutte le mie viscere.
Sono andata di corsa in paese e ho passato i cinque grandi templi. Luccicavano, ricoperti di lamine d’argento, mentre gli idoli delle dee parevano osservarmi in silenzio e con severità. poi Kara è giunta trascinandosi sui piedi sporchi, sudicia, stracciata e avvilita.

I tamburi rimbombano, rullano avvisando che è in arrivo la tormenta. Si avvicinano i tuoni che annunciano le piogge. Io ho con me la lastra di metallo con la mia immagine che il dio ha tirato fuori dal fiume e mi ha donato. È qualcosa che ha una vita propria, è magico e bisogna risvegliare la sua anima. La darò a mia madre perché mi perdoni. Ma, arrivando in mezzo alla piazza, come premonizione di una disgrazia, un raggio rimbombante è caduto sullo specchio che è diventato mille anime di Nain. Ho trovato la regina Conorì nel tempio della Luna, riunita con le più anziane per chiedere consiglio sul da farsi con quelli appena arrivati sull’Arcobaleno. L’ho aspettata mentre raccoglievo i pezzi della mia anima, rotta e sparpagliata. Poco dopo è venuta fuori vestita da guerriera e ho capito che si era prepara per la battaglia. È bellissima, coi suoi lunghi cappelli corvini e il suo incedere maestoso. Non sarò mai una regina come lei, così coraggiosa da incutere paura. È la nostra regina e anch’io m’inchino quando passa. Porta una lamina d’oro sul petto e grossi bracciali intorno ai polsi che le dànno forza quando adopera la lancia. Mi osserva indagatrice indovinando sventure. Io la prego e la supplico che non uccidano gli dèi ma lei è implacabile. La disturba la mia debolezza perché, come figlia sua, dovrei essere crudele e astuta, valorosa, ardita e orgogliosa, ma io amo il mio dio biondo. Voglio conoscere il suo regno dei cieli, o dei pantani, come dice lui, qualunque esso sia.
La regina non mi lascia spiegare ciò che provo e, vedendo lo specchio fatto a pezzi in mezzo alla piazza, mi guarda con inesprimibile dispetto, rabbia, indignazione. In ultimo si allontana mormorando fra sé frasi sconnesse, senza rivolgermi parola. io rimango in una solitudine infinita, col mio amore sgretolato.

Le guerriere Partono dal paese vestite con pelli di serpenti cavalcando sulle “huangane”, cinghialetti pelosi e altri animali coi musi da volpe, orecchie di gufo e unghioni da puma, fra le grida dei pappagalli e il tumulto delle scimmie, armate fino ai denti con frecce, archi, cerbottane e pietre nelle liane per spaccare teste maschili.
Kara, la donna stuprata, rimarrà con me per custodirmi, giacché mia madre ha saputo della violenza a lei successa e sospetta delle mie scappatelle. Ma io le sfuggo mentre è occupata a lavarsi nel pozzo le tante ferite, perché si è difesa come un giaguaro infuriato.
Voglio andare giù per osservare la battaglia, ma lungo il sentiero che porta al fiume m’imbatto nel figlio del Sole, giunto fin qui senza che nessuno lo abbia fermato poiché non vedo neanche le guardiane al loro posto. Il mio amato indossa, anche lui, un’armatura d’argento da guerriero, e ha una sottile spada in pugno. Mi prende dalla cintura e mi fa fretta.
“Amazzone” - mi dice, perché gli piace chiamarmi così, e non Naìn, - “vieni con me”.
Io lo seguo senza vacillare e il mio cuore fa un balzo quando alzo gli occhi e vedo apparire l’arcobaleno nel cielo. È arrivata l’ora di partire e andrò anch’ io nel regno del mio amato percorrendo quel lontano tragitto di enorme mistero.

Dall’alto ho veduto morire uno dopo l’altro gli dèi arrivati dalla Luna nella grande piroga con le vele al vento, e quello delle cicatrici è diventato una macchia di catrame. Le nostre dee non muoiono mai e sono piena di spavento e di paura. Le guerriere del regno Conorì erano molte e feroci, qualcuna è caduta ma il loro coraggio mi ha ricolmato di orgoglio. I guerrieri di Couyinco si sono accaniti anch’essi dall’altra sponda per sterminare gli uomini bianchi, in quella sera di tormenta. Quando il mio amato ha sollevato la sua canna di metallo ho visto mia madre abbattersi come un raggio trafitto dal sole, nella sabbia della riva dove dormono le tartarughe, sotto la pioggerella vespertina. la sua corona di regina invincibile è caduta, il giaguaro ha ruggito, il tamburo ha rimbombato nella foresta più profonda.

L’orrore e la disperazione hanno fatto sì che uno spirito crudele s’impadronisse della mia volontà e del mio corpo; in quell’ istante sono saltata nell’ aria con l’agilità di un puma. Raccogliendo tutto il valore che restava sopito nelle viscere, ho urlato d’amarezza e di dolore, e afferrando stretta la mia pietra affilata ho tagliato il collo al mio amato figlio del Sole. L’anima mi si è rimpicciolita e anche i morti hanno spalancato gli occhi per guardarmi. È seguito uno schizzo di sangue che non era rosso, ma di un colore indefinito come un fluido di morte.
Da quel momento piango la sua scomparsa, ma senza rimorsi. I resti del mio amato e della regina Conorì sono stati seppelliti intatti sotto due piramidi di pietra, nella parte più alta del regno che oggi è mio.
Non arriverò mai più alla Luna, il regno del mio amato. nella selva gli dèi Sono morti perché erano creature deboli e fragili, quelli che son giunti insieme alla pioggia di fiori gialli. Sono trascorsi molti anni e nessun uomo ha potuto sostituire quel dio, perché per me è sempre un dio, nel mio cuore dolente.

Cresce il frutto del mio amore, Luna, di lunga capigliatura dorata e anche lei sarà una guerriera come fu sua nonna e come fu suo padre. Oggi sono io, Naìn, la regina della selva. Il fiume che portò gli dèi lo abbiamo chiamato Rio delle Amazzoni, dal nome che mi dava il mio amato. Lungo questo fiume, in su e in giù, io sono il terrore della regione. Gli uomini fuggono da me, ma mi pagano tributo. In cambio assicuriamo la difesa dei loro villaggi in caso di disastri naturali o di attacchi dai nemici comuni.
lungo il fiume Sono arrivati altri uomini bianchi che hanno attraversato la cordigliera, ma loro non sono dèi. Ci sono anche quelli malvagi che hanno portato malattie e pesti, e le nostre guerriere muoiono dello stesso male che portò via a Kara e che loro chiamano vaiolo. Ma io sono ancora qui, Naìn, figlia di Conorì, ancora nessuno mi ha vinto e, quando mi prende un particolare scoramento guardo in alto, alla Luna, e chiedo al mio amato protezione, coraggio e ventura.

(1) Abitanti lungo il fiume Marañon, affluente del Rio delle Amazzoni.


Adriana Alarco de Zadra (Perù), Dalla luna sull’Arcobaleno
(Revisione linguistica ed editing S.V.)

3 commenti:

  1. Grazie, Stefano, per il tuo infaticabile lavoro di ricerca, traduzione ed edizione e per pubblicarmi nel tuo labirinto !!!!

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