(Immagine: Strange_Town)
La sillaba restava incompiuta, priva di significato, impigliata tra la finestra e il vaso di fiori.
Incompiuto il gesto delle tue dita indebolite, che tracciavano la metà di una N maiuscola sul lenzuolo.
— No!
Credevi che bastasse tenere gli occhi aperti perché la morte non potesse colpirti. Li hai spalancati fino al limite delle tue forze, ma la notte è arrivata, ti ha preso tra le braccia.
Ancora ieri pensavi alla tua auto, che quel sabato, già così lontano, non hai finito di lavare, quando per la prima volta hai avvertito la morsa di dolore allo stomaco.
— Cancro, — aveva detto il medico, e il candore del tuo letto d’ospedale ti riempie di orrore.
Perfino le tue mani sono diventate bianche coi giorni, le settimane, i mesi. Scomparso il grasso delle macchine, le tue unghie non si spezzavano più, restavano lunghe e rosa come quelle di un funzionario.
La sera piangevi in silenzio, senza singhiozzi, senza scosse, solo lacrime che scivolavano piano sul cuscino, senza un rumore, nella stanza comune dove la luce verde della veilleuse incavava le guance e gli occhi dei tuoi vicini malati.
No, non eri solo.
Eravate sei o sette a morire da un giorno all’altro.
Come in fabbrica. Nemmeno lì eri solo, eravate venti o cinquanta a ripetere lo stesso gesto da un giorno all’altro.
La tua non era soltanto una fabbrica di orologi, era anche una fabbrica di cadaveri.
E all’ospedale, come in fabbrica, non avevate nulla da dirvi.
Tu credevi che gli altri dormissero, o che fossero già morti. Gli altri credevano che tu dormissi, o che fossi già morto.
Nessuno parlava, neanche tu.
Non volevi più parlare, volevi solo ricordare qualcosa, ma non sapevi cosa.
Non c’era niente da ricordare.
I tuoi ricordi, la giovinezza, la forza, la vita se li era presi la fabbrica. Ti ha lasciato solo la stanchezza, la stanchezza mortale di quarant’anni di lavoro.
Agota Kristof (1935-2011), Morte di un operaio
(Tratto da La vendetta, Einaudi 2005 — traduzione di Maurizia Balmelli)
La sillaba restava incompiuta, priva di significato, impigliata tra la finestra e il vaso di fiori.
Incompiuto il gesto delle tue dita indebolite, che tracciavano la metà di una N maiuscola sul lenzuolo.
— No!
Credevi che bastasse tenere gli occhi aperti perché la morte non potesse colpirti. Li hai spalancati fino al limite delle tue forze, ma la notte è arrivata, ti ha preso tra le braccia.
Ancora ieri pensavi alla tua auto, che quel sabato, già così lontano, non hai finito di lavare, quando per la prima volta hai avvertito la morsa di dolore allo stomaco.
— Cancro, — aveva detto il medico, e il candore del tuo letto d’ospedale ti riempie di orrore.
Perfino le tue mani sono diventate bianche coi giorni, le settimane, i mesi. Scomparso il grasso delle macchine, le tue unghie non si spezzavano più, restavano lunghe e rosa come quelle di un funzionario.
La sera piangevi in silenzio, senza singhiozzi, senza scosse, solo lacrime che scivolavano piano sul cuscino, senza un rumore, nella stanza comune dove la luce verde della veilleuse incavava le guance e gli occhi dei tuoi vicini malati.
No, non eri solo.
Eravate sei o sette a morire da un giorno all’altro.
Come in fabbrica. Nemmeno lì eri solo, eravate venti o cinquanta a ripetere lo stesso gesto da un giorno all’altro.
La tua non era soltanto una fabbrica di orologi, era anche una fabbrica di cadaveri.
E all’ospedale, come in fabbrica, non avevate nulla da dirvi.
Tu credevi che gli altri dormissero, o che fossero già morti. Gli altri credevano che tu dormissi, o che fossi già morto.
Nessuno parlava, neanche tu.
Non volevi più parlare, volevi solo ricordare qualcosa, ma non sapevi cosa.
Non c’era niente da ricordare.
I tuoi ricordi, la giovinezza, la forza, la vita se li era presi la fabbrica. Ti ha lasciato solo la stanchezza, la stanchezza mortale di quarant’anni di lavoro.
Agota Kristof (1935-2011), Morte di un operaio
(Tratto da La vendetta, Einaudi 2005 — traduzione di Maurizia Balmelli)
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