(Immagine: Nick Schiavulli)
Un sacco cieco, una tana delicata. Inutile aprire gli occhi, non vedrebbe che tenebra. Ugualmente il corpicciolo matura un’indistinta certezza di sé; e di essere sé dentro un altro. Galleggia, irrisorio isolotto, in un bagno di misterioso tepore. Vi nuota e ristagna, elastico e inerte a un tempo, sotto la vernice di grasso che lo protegge. Se ne unge, abbevera e nutre, così come d’una stilla d’acqua una zolla di terra in un vaso. Solo che a lui la focaccia della placenta garantisce ogni giorno ulteriori sughi e umori lungo un cordone infallibile. Ne cresce, se ne ingrossa, si fa da moncone creatura. Fino all’istante in cui, nel suo esilio intoccabile, un lampo brilla, un alito soffia: “Io, io, io!”; un alito che non è ancora voce, coscienza, pensiero, ma solo infinitesimo, opaco, stuporoso sprigionamento dal Nulla… “Io, io, io!”… se così possa chiamarsi il trasalimento confuso, in lui, di remotissimi suoni e remotissimi moti; e l’ancor più ignara alleanza col mostro nelle cui viscere sta: quel Leviatano di morbida, montuosa carne di cui sente battere il cuore all’unisono col suo.
Poi, un mattino, nella strettura dov’è, si sente eccessivo e smania di scatenarsene. Nel grembo, ch’era finora una patria, indovina un ostacolo e lo sforza duramente col capo, cercando in basso l’uscita. Spasimi senza legge, infrenabili come quelli che una notte voluttuosamente lo accolsero seme, assecondano la sua rivolta. Un’agonia - la prima e la penultima agonia della sua vita - con sudore e sangue lo dirige verso la luce. Ode grida sopra di sé, alte grida. E un altissimo croscio di cataratte. Ma lui, impavido, per emergere usa precocemente astuzia e violenza; allunga, appiattisce la testa, ne impicciolisce le fontanelle; attenua l’ingombro dell’ossa; s’induce a strisciare, a sgusciare lungo il cunicolo come meglio non saprebbe fra le sbarre il più slogabile evaso. Attenzione: lo sbocco è imminente. Dall’orifizio, fra due gambe spalancate e convulse, il grinzoso vecchietto s’affaccia, tutto pieghe, la pelle timida e blu. Uno gnomo miserabile e piangente, un ennesimo, effimero fuoco, ma anche una buccia e polpa di barbara vitalità, un testimonio senza confronto che in un semplice vagito assolve e certifica il mondo.
Guardatelo: già insegna ai polmoni le meraviglie del respiro, li espande, li contrae, torna a espanderli; inaugura gloriosamente l’aria e le sue misture nutrienti…
È nato. Ha cominciato a vivere. Ha cominciato a morire.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), La nascita (da Calende greche, 1990)
Un sacco cieco, una tana delicata. Inutile aprire gli occhi, non vedrebbe che tenebra. Ugualmente il corpicciolo matura un’indistinta certezza di sé; e di essere sé dentro un altro. Galleggia, irrisorio isolotto, in un bagno di misterioso tepore. Vi nuota e ristagna, elastico e inerte a un tempo, sotto la vernice di grasso che lo protegge. Se ne unge, abbevera e nutre, così come d’una stilla d’acqua una zolla di terra in un vaso. Solo che a lui la focaccia della placenta garantisce ogni giorno ulteriori sughi e umori lungo un cordone infallibile. Ne cresce, se ne ingrossa, si fa da moncone creatura. Fino all’istante in cui, nel suo esilio intoccabile, un lampo brilla, un alito soffia: “Io, io, io!”; un alito che non è ancora voce, coscienza, pensiero, ma solo infinitesimo, opaco, stuporoso sprigionamento dal Nulla… “Io, io, io!”… se così possa chiamarsi il trasalimento confuso, in lui, di remotissimi suoni e remotissimi moti; e l’ancor più ignara alleanza col mostro nelle cui viscere sta: quel Leviatano di morbida, montuosa carne di cui sente battere il cuore all’unisono col suo.
Poi, un mattino, nella strettura dov’è, si sente eccessivo e smania di scatenarsene. Nel grembo, ch’era finora una patria, indovina un ostacolo e lo sforza duramente col capo, cercando in basso l’uscita. Spasimi senza legge, infrenabili come quelli che una notte voluttuosamente lo accolsero seme, assecondano la sua rivolta. Un’agonia - la prima e la penultima agonia della sua vita - con sudore e sangue lo dirige verso la luce. Ode grida sopra di sé, alte grida. E un altissimo croscio di cataratte. Ma lui, impavido, per emergere usa precocemente astuzia e violenza; allunga, appiattisce la testa, ne impicciolisce le fontanelle; attenua l’ingombro dell’ossa; s’induce a strisciare, a sgusciare lungo il cunicolo come meglio non saprebbe fra le sbarre il più slogabile evaso. Attenzione: lo sbocco è imminente. Dall’orifizio, fra due gambe spalancate e convulse, il grinzoso vecchietto s’affaccia, tutto pieghe, la pelle timida e blu. Uno gnomo miserabile e piangente, un ennesimo, effimero fuoco, ma anche una buccia e polpa di barbara vitalità, un testimonio senza confronto che in un semplice vagito assolve e certifica il mondo.
Guardatelo: già insegna ai polmoni le meraviglie del respiro, li espande, li contrae, torna a espanderli; inaugura gloriosamente l’aria e le sue misture nutrienti…
È nato. Ha cominciato a vivere. Ha cominciato a morire.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), La nascita (da Calende greche, 1990)
(Tratto dall'edizione Bompiani, 1992)
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