Sugli uomini grassi — Giorgio Manganelli

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Per me, parlare degli uomini grassi significa giocare in casa. Io sono grasso. Non pretendo, con ciò, di qualificarmi come tecnico della pinguedine, ma semplicemente come un tale che parla di cose che conosce non per sentito dire, ma per propria esperienza. Vi è di più: prima di essere grasso – condizione che ammorbidisce e ravvolge gran parte della mia esistenza – io sono stato magro, anzi macro. Ho fotografie di trent’anni fa, nelle quali appaio come una decorosa imitazione di un verme con abbozzo di scheletro. Ora io sono un cuscino, un sofà, un piumino. Sono morbido e spazioso. Infatti, il grasso occupa più spazio del magro; ma non lo fa per arroganza, ma per una naturale tendenza ad espandersi, una intrinseca gommosità corporea.
Ho l’impressione che la mia pinguedine mi conferisca un qualche decoro, forse l’unico decoro cui mi sia lecito tendere. Quando manifesto l’intenzione di dimagrire – cosa che tutti i grassi fanno, e in genere disattendono – non di rado i miei selezionati amici manifestano una tal quale apprensione, come se dessi segno di patente disordine mentale. Nel paesaggio italiano, io mi adergo come un dignitoso monumento adiposo, che Italia Nostra non consente venga modificato. Il Colosseo non può, non deve essere quadrato, né il Duomo di Milano può emettere cupole da moschea. Ciò significa che in realtà per le persone grasse non si ha diffidenza, né ostilità preconcetta; non è ancora nato un razzismo contro i grassi, e speriamo che la crisi non faccia della magrezza un segno di onestà civile, e della pinguedine un sintomo di tristizia moral-politica.
Chi è grasso prova verso se stesso sentimenti mutevoli: talora se ne cruccia, e interpreta, non sempre a torto, quel deposito non adoperato di energia, come l’indizio di una vita non indulgente, avara, che lo ha costretto a ricorrere a generi di conforto. Talora si compiace di essere, come dicevo, spazioso, di non avere angoli retti e puntuti, di essere soffice come un uomo di muschio, una concresciuta statua di lana. Se dà nel megalomane, come spesso accade, si riconosce come monumento, e un presentimento di inaugurazione, di discorsi di sindaci e uomini di cultura lo consola di molti affanni. Il pingue cammina adagio, come se dovesse essere riconosciuto e salutato da molti notabili, ma d’assai meno notabili di lui. In realtà, non lo conosce nessuno, e tuttavia resta un notabile: lo dicono la camminata di gran misura, il volto pensoso senza cruccio, la distaccata benevolenza.
Si scrive, si afferma che anni di angoscia occorrono a fare un uomo grasso; che il pingue è afflitto, rancoroso, affannato; che, in realtà, in quella sua fittizia grascia egli voglia affondare, perdersi, sciogliersi. Può essere: forse il grasso vuole vestire se stesso di un cappotto di soffice amore, un perenne ammanto di benevola carne. Si chiude in una tana, una reggia, un mantello di marmo che imita il corpo. Profondamente corpo, forse il grasso è ignaro di voli, di abbandoni, di corse pubblicitarie per i prati. Insieme soave e inquieto, è della razza dei khan che Marco Polo incontrò in Mongolia, dei saggi taoisti che percorrono il mondo racchiusi in una stanza, dei pensosi monaci buddisti che si fanno morbidi per uscire dalla catena dei desideri e dei dolori, infine dei grandi ecclesiastici che, nei loro sogni solitari, parlano latino.


Giorgio Manganelli (1922-1990), da Improvvisi per macchina da scrivere, 1989

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