Levana e le «Nostre Signore del Dolore» — Thomas De Quincey

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Spesso a Oxford vidi nei miei sogni Levana. La riconobbi dai suoi simboli romani. Chi è Levana? Lettore, che sostieni di non aver troppo tempo per erudirti, non ti dispiacerà che te lo spieghi. Levana era la dea romana che esercitava per il neonato il primo ministero di nobilitante benevolenza, tipico, nel suo rituale, di quella grandezza che è dappertutto propria dell'uomo e di quella benignità delle potenze invisibili che anche nel mondo pagano scende talvolta a sostenerla. Al momento stesso della nascita, proprio quando il neonato saggiava per la prima volta l'atmosfera del nostro travagliato pianeta, esso era deposto in terra. Questo gesto si prestava a diverse interpretazioni. Ma immediatamente, affinché una così nobile creatura non restasse in quell'umile posizione più di un istante, o la mano paterna in rappresentanza di Levana, o un parente prossimo in rappresentanza del padre, lo sollevava in alto, gli ordinava di stare eretto quale sovrano di tutto il mondo e ne volgeva la fronte verso le stelle dicendo, forse in cuor suo: «Ammirate ciò che è più grande di voi!» Questo atto simbolico rappresentava la funzione di Levana. E quella dama misteriosa che non rivelò mai il suo volto (salvo a me in sogno) ma sempre agì per procura, traeva il suo nome dal verbo latino (rimasto tuttora nell'italiano) levare, sollevare verso l'alto.
Tale è la spiegazione di Levana. E da ciò è venuto che alcuni intendano per Levana la potenza tutelare che vigila l'educazione nella prima infanzia. Colei che non tollererebbe alla nascita del suo mirabile pupillo nemmeno una sua finta o simbolica degradazione, ancor meno si può ritenere che tollererebbe la vera degradazione inerente al mancato sviluppo delle facoltà che sono in lui. Ella perciò vigila sull'umana educazione. Ora la parola educo, con la penultima breve, è derivata (per un processo che spesso si riscontra nella cristallizzazione delle lingue) dalla parola edùco, con la penultima lunga. Tutto ciò che educe, o sviluppa, educa. Per educazione di Levana si intende, perciò, non il povero meccanismo che è messo in moto da sillabari e da grammatiche, ma il meccanismo che è mosso dal possente sistema di forze interiori nascoste nel profondo della vita umana e che, per mezzo di passioni, lotte, tentazioni, energie della resistenza, agisce continuamente sui fanciulli e non si arresta mai ne giorno né notte, come le stesse ruote possenti del giorno e della notte, i cui istanti, simili a raggi che non hanno sosta, brillano eternamente nel loro ruotare.
Se queste dunque sono le azioni con cui Levana opera, quale profonda reverenza ella deve provare verso i mezzi del dolore. Ma tu pensi, lettore, che generalmente i bambini non sono soggetti a un dolore come il mio. La parola generalmente ha due sensi: il senso di Euclide, in cui significa universalmente (o in tutta l'estensione del genere) e uno sciocco senso di questo mondo, in cui significa abitualmente. Ora, io sono ben lungi dal voler dire che i bambini sono universalmente atti a provare un dolore come il mio. Ma ve ne sono più di quanti voi non sappiate che muoiono di dolore in questa nostra isola. Vi narrerò un caso comune. I regolamenti di Eton richiedono che un ragazzo sussidiato coi fondi della scuola rimanga nel collegio dodici anni; a diciott'anni è dimesso per limite di età e perciò deve entrare in collegio a sei anni. I bambini strappati alle madri e alle sorelle a quell'età, non di rado muoiono. Parlo per cognizione di causa. Nei registri, la morte non è attribuita al dolore; ma questa è la vera causa. Un dolore di quel genere e a quell'età ha fatto più vittime di quante non gliene siano state attribuite.


È per questo che Levana spesso e in intima unione con le potenze che squassano il cuore umano. È per questo che ella tanto ama il dolore. «Queste dame,» bisbigliavo fra me nel vedere i ministri con cui Levana stava conversando, «queste dame sono i Dolori; e sono tre di numero, come tre sono le Grazie che adornano di bellezza la vita dell'uomo; e tre sono le Parche, che tessono nel loro misterioso telaio il cupo arazzo della vita umana sempre con colori in parte tristi, talvolta accesi di tragico cremisi e di nero; e tre sono le Furie, che portano l'espiazione invocata dall'aldilà per gravi colpe che ancora si aggirano su questo mondo; e solo tre un tempo erano perfino le Muse, che intonano l'arpa, la tromba o il liuto al grave fardello delle appassionate creazioni dell'uomo. Queste sono i Dolori, tutte e tre a me note.» Le ultime parole le dico ora; ma a Oxford dicevo: «una delle quali conosco, e le altre fin troppo sicuramente conoscerò». Poiché già nella mia fervida giovinezza, vedevo (vagamente disegnati sul cupo sfondo dei miei sogni) i lineamenti imprecisi delle tre terribili sorelle. Queste sorelle... con che nome le chiameremo?
Se dico semplicemente «i Dolori» vi è la possibilità che il termine sia male interpretato; si potrebbe intendere un singolo dolore - casi separati di dolore - mentre io voglio un termine che esprima le possenti astrazioni che si incarnano in tutte le singole sofferenze del cuore umano; e vorrei presentare queste astrazioni come personificate, cioè rivestite degli attributi umani della vita, e con funzioni prettamente mortali. Chiamiamole perciò Nostre Signore del Dolore. Le conosco a fondo e ho percorso tutti i loro domini. Sono tre sorelle di un'unica misteriosa famiglia; e le loro strade sono ben distinte, ma il loro regno non ha confini. Spesso le ho vedute conversare con Levana e, talvolta, di me stesso. Parlano dunque? Oh, no! Fantasmi possenti come questi disdegnano le limitazioni del linguaggio. Essi si esprimono con accenti umani quando risiedono nel cuore dell'uomo, ma tra loro non passa voce né suono; un eterno silenzio regna nei loro domini. Esse non parlavano, mentre conversavano con Levana; non bisbigliavano; non cantavano; sebbene spesse volte abbia pensato che avrebbero potuto cantare, poiché sulla terra avevo udito i loro misteri spesse volte decifrati dall'arpa e dal cembalo, dal flauto e dall'organo. Come Dio, di cui sono le ancelle, esse esprimono il loro piacere non con suoni che periscono e con parole che si disperdono, ma con segni in cielo, con mutamenti sulla terra, con palpiti in fiumi segreti: blasoni dipinti sulla tenebra e geroglifici tracciati sulle tavolette del cervello. Esse roteavano confusamente; io leggevo i loro passi. Esse telegrafavano da lungi; io decifravo i loro segnali. Esse cospiravano tra loro; e sugli specchi dell'oscurità il mio occhio, seguiva i loro complotti. I simboli erano i loro; le parole sono le mie.


Che cosa sono queste sorelle? Che cosa fanno? Vi descriverò la loro forma e la loro presenza; se forma si può chiamare cosa così fluttuante nei suoi contorni; e presenza si può chiamare ciò che di continuo si avanzava in primo piano e di continuo si ritraeva fra le ombre.
La maggiore delle tre è chiamata Mater Lachrymarum, Nostra Signora delle Lacrime. È lei che notte e giorno delira e geme, invocando volti scomparsi. Ella fu a Roma, quando si udì un suono di lamenti: Rachele che piangeva i suoi figli, rifiutando ogni conforto. Ella fu a Betlemme nella notte in cui la spada di Erode spazzò dalle sue case gli Innocenti e si irrigidirono per sempre i piccoli piedi che trotterellando per le stanze svegliavano nel cuore dei familiari palpiti di amore non inosservati in cielo.
I suoi occhi sono di volta in volta dolci e astuti, intensi e assonnati; spesso si levano verso le nubi; spesso sfidano il cielo. Porta sul capo un diadema. E dai ricordi dell'infanzia sapevo che ella poteva allontanarsi sui venti quando udiva il singhiozzare delle litanie, o il tuonare degli organi o quando osservava l'adunarsi delle nubi estive. È questa sorella, la maggiore, che porta alla cintura chiavi più che apostoliche che aprono ogni capanna e ogni palazzo. So che ella sedette tutta la scorsa estate al capezzale del mendicante cieco, quello con cui così spesso e volentieri mi fermavo a parlare, e la cui pia figliuola di otto anni, dal volto luminoso, resisteva alle tentazioni dei giochi e dell'allegria del villaggio per camminare tutto il giorno lungo le strade polverose col suo infelice padre. Per questo atto, Dio le inviò una grande ricompensa. Nella primavera dell'anno e quando anche la sua primavera germogliava, Egli la richiamò a sé. Ma il padre cieco la piange in eterno; ancora egli sogna ad alta notte che la piccola mano che lo guidava è stretta nella sua; e ancora si sveglia in una tenebra che è ora avvolta in una seconda tenebra più profonda. La stessa Mater Lachrymarum ha anche trascorso tutto questo inverno 1844-45 nella camera dello Zar a rievocargli l'immagine di una figlia (non meno pia), che salì a Dio non meno improvvisamente e lasciò dietro a sé una tenebra non meno profonda. È grazie al potere di queste chiavi che Nostra Signora delle Lacrime s'insinua, intrusa spettrale, nelle camere degli uomini insonni, delle donne insonni, dei bambini insonni, dal Gange al Nilo, dal Nilo al Mississippi. E lei, perché è la primogenita del suo casato ed ha l'impero più vasto, onoreremo col titolo di «Madonna».


La seconda delle sorelle è chiamata Mater Suspiriorum, Nostra Signora dei Sospiri. Non scala mai le nuvole, né si allontana sui venti. Non porta diadema. E i suoi occhi, se pur qualcuno potesse vederli, non sarebbero né dolci né astuti; nessun mortale saprebbe leggere in essi la loro storia; li troverebbe pieni di sogni morenti e relitti di estasi dimenticate. Ma ella non alza gli occhi; il suo capo, su cui è posato un turbante in brandelli, è in eterno reclinato, è in eterno nella polvere. Non piange, non geme. Ma sospira impercettibilmente a intervalli. Sua sorella, Madonna, è spesse volte tempestosa e frenetica, inveisce a gran voce contro il cielo e chiede che le rendano i suoi cari. Ma Nostra Signora dei Sospiri non grida mai, non sfida mai, non sogna aspirazioni ribelli. È umile fino all'abiezione. La sua è la sottomissione di chi non spera. Può mormorare, ma solo in sogno. Può sussurrare, ma solo tra sé nella penombra. Brontola, talvolta, ma solo in luoghi solitari, desolati come lei è desolata, in città diroccate e quando il sole è sceso al suo riposo. Questa sorella è la visitatrice del paria, dell'ebreo, dello schiavo al remo nelle galere mediterranee; del criminale inglese nell'isola di Norfolk, cancellato dal libro dei ricordi nella dolce, lontana Inghilterra; di chi si è pentito ormai invano e sempre ritorna con lo sguardo a una tomba solinga che gli appare come l'altare demolito di un passato e sanguinoso sacrificio, altare su cui ogni offerta è ormai vana, sia per implorare il perdono, sia per tentare una riparazione. Ogni schiavo che a mezzodì guardi il sole tropicale con timido rimprovero, mentre con una mano addita la terra, nostra madre comune ma per lui matrigna, e con l'altra addita la Bibbia, nostra maestra comune, ma sigillata e a lui preclusa; ogni donna che sieda nelle tenebre, senza amore che la protegga, senza speranza che illumini la sua solitudine, perché i divini istinti che accendono nella sua natura i germi di quei santi affetti posti da Dio nel suo seno di donna, sono stati soffocati dalle esigenze sociali e si consumano ora inutilmente ardendo tetri, come le lampade negli antichi sepolcri; ogni monaca defraudata della sua primavera, che più non ritorna, da parenti malvagi che Dio giudicherà; ogni prigioniero in ogni carcere; tutti quelli che sono traditi e tutti quelli che sono respinti; i reietti dalla legge della tradizione e i figli della disgrazia ereditaria: tutti costoro si accompagnano a Nostra Signora dei Sospiri. Anch'ella porta una chiave ma ne ha poco bisogno. Poiché ella regna soprattutto fra le tende di Seni e fra i vagabondi senza casa di ogni paese. Pure ella trova albergo fra gli uomini di più alto rango; e perfino nella gloriosa Inghilterra vi sono alcuni che di fronte al mondo portano la testa alta come la renna superba, eppure in segreto hanno ricevuto il suo marchio sulla fronte.
Ma la terza sorella, che è anche la più giovane ...! Ssst! Abbassiamo la voce quando parliamo di lei. Il suo regno non è grande, altrimenti non vi sarebbe più vita; ma dentro quel regno il suo potere è assoluto. Il suo capo, coronato di torri come quello di Cibele, si erge fin quasi a celarsi allo sguardo. Non si china mai; e i suoi occhi sollevandosi così in alto potrebbero esser nascosti dalla distanza. Ma, quali essi sono, non possono essere nascosti; attraverso il triplice velo di crespo che ella porta, la fiera luce di un'ardente sofferenza, che mai non ha posa al mattutino o ai vespri, al mezzodì o alla mezzanotte, alla marea crescente o alla marea calante, può esser veduta da terra. Ella sfida Iddio. Ella è anche la madre delle follie; l'ispiratrice dei suicidi. Molto si affondano le radici del suo potere; ma ristretto è il numero di coloro su cui domina. Poiché ella può avvicinare solo coloro in cui una natura profonda è stata sconvolta da un'intima convulsione; coloro in cui il cuore trema e il cervello vacilla sotto i colpi combinati di tempeste interne ed esterne. Madonna si muove con passi incerti, rapidi o lenti, ma sempre con tragica grazia. Nostra Signora dei Sospiri si trascina timida e furtiva. Ma questa più giovane sorella si muove con moti imprevedibili, a scatti e con salti da tigre. Non porta chiavi; poiché sebbene venga di rado fra gli uomini apre a forza tutte le porte che le è permesso di varcare. Il suo nome è Mater Tenebrarum, Nostra Signora delle Tenebre.

Erano queste le Semnai Theai, o Dee Sublimi, erano queste le Eumenidi o Graziose Signore (così chiamate dalla antichità in trepida propiziazione) dei miei sogni di Oxford. Madonna parlava. Parlava con la sua mano misteriosa. Toccandomi il capo, ella faceva cenno a Nostra Signora dei Sospiri; e ciò che ella diceva, tradotto dai segni che (eccetto in sogno) nessun mortale sa decifrare, era questo: «Guarda! Questo è colui che sin dall'infanzia io ho consacrato ai miei altari. Questo è colui che una volta io scelsi come mio prediletto. È lui che io ho sviato, è lui che ho ingannato, e ho sottratto al cielo il suo giovane cuore per farlo mio. Per mia opera egli è divenuto idolatra; e per opera mia egli ha adorato, con languenti desideri, il verme e ha pregato la putrida tomba. Santa era per lui la tomba; gradevole la sua oscurità, sacra la sua corruzione. Lui, questo giovane idolatra, io ho maturato per te, cara, dolce sorella dei Sospiri! Accoglilo tu ora nel tuo cuore, e maturalo per la nostra terribile sorella. E tu,» disse volgendosi alla Mater Tenebrarum, «perfida sorella che infuri e odi, tu prendilo a lei. Fa' che il tuo scettro gravi sul suo capo. Non permettere che donna alcuna, e la sua tenerezza, siedano accanto a lui nelle sue tenebre. Bandisci le debolezze della speranza, dissecca il sollievo dell'amore, brucia le fontane delle lacrime, tormentalo come tu sola sai tormentare. Così egli sarà perfezionato nella fornace, così egli vedrà le cose che non dovrebbero essere viste, visioni che sono abominevoli, e segreti che sono inesprimibili. Così egli leggerà verità passate, verità tristi, verità grandiose, verità spaventose. Così egli tornerà a sollevarsi prima di morire. E così avremo adempiuto la missione affidataci da Dio: di tormentare il suo cuore fino a dispiegare le facoltà del suo spirito.»


Thomas De Quincey (1785-1859), Levana and Our Ladies of Sorrow (da Suspiria de profundis, 1845)

(Traduzione di Filippo Donini e Renata Barocas, Garzanti 1987 — immagini dal comic su Thomas De Quincey Sacred Memory di Mike Russel)

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