Epidemia — Mónica Sánchez Escuer

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(Illustrazione: Stephen Elvidge)


I semafori passano dal verde al giallo, dal giallo al rosso con il ritmo monotono e fuori sincronia di sempre. L'autobus ormai non investe più nessuno. La gente non si ammassa alle fermate né si schiaccia contro i vetri delle porte. I taxi non litigano con i minibus, i minibus con il mondo. Non ci sono auto in doppia fila. Nessun ingorgo. Agli incroci non si sentono i clacson né i soliti improperi. Si sente solo il vento, gli uccelli curiosi e lo stridio di una radio che qualcuno ha dimenticato di spegnere. Il Circuito Bicentenario riluce inutile, nudo, il suo nuovo asfalto. L'aria è trasparente come ai tempi di Fuentes. Sono giorni che non ci sono rapine. Nessun poliziotto. Sono fuggiti tutti. Tutti. Dall'epidemia, dalla città, dal paese. Si possono vedere ancora sulle strade, vicino alla frontiera, i più sbandati. Molti non hanno nemmeno sepolto i loro morti. Negli ospedali e nelle case, sopra i letti sudici, cani, scarafaggi, gatti, mosche e topi si spartiscono i corpi. Nessun maiale. Quei pochi che alcune persone ingrassavano nei cortili hanno mangiato i resti dei loro padroni. Sono tutti morti di influenza umana. Non c'è animale che porti via i propri cadaveri.


Mónica Sánchez Escuer (Messico), Epidemia

(Tradotto da Historias baldías)

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