Gli incidenti di Sofia — Clarice Lispector

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Quale che fosse stata la sua precedente occupazione, l’aveva abbandonata, aveva cambiato professione per dedicarsi all’insegnamento nelle scuole elementari: ecco tutto ciò che sapevamo di lui.
Il maestro era grasso, grande e silenzioso, aveva spalle rattrappite. Al posto del pomo di Adamo aveva spalle rattrappite. Portava una giacca troppo corta, occhiali senza montatura, appena un filo dorato a sovrastare un naso grosso e romano. Ne ero attratta. Non amore, ma attratta dal suo silenzio e dalla controllata impazienza che aveva nell’insegnare e che io, offesa, avevo indovinata. Presi a comportarmi male in classe. Parlavo ad alta voce, stuzzicavo i compagni, interrompevo la lezione con spiritosaggini, finché lui diceva, rosso in viso:
Signorina, stia zitta, se no la mando fuori.
Ferita, trionfante, rispondevo in tono di sfida: mi ci mandi pure! Lui non lo faceva, altrimenti sarebbe stato come se mi avesse obbedito. Ma lo esasperavo a tal punto che mi era diventato doloroso essere l’oggetto dell’odio di quell’uomo che in un certo modo amavo. Non lo amavo come la donna che un giorno sarei stata, lo amavo come una bambina che maldestramente tenta di proteggere un adulto, con la collera di chi ancora non è stato vile e vede un uomo forte curvare le spalle così. Mi irritava. La sera, prima di addormentarmi, mi irritava. Avevo nove anni e qualcosa, età dura come il gambo non spezzato di una begonia. Lo torturavo, e quando riuscivo a esacerbarlo sentivo in bocca, in gaudio di martirio, l’insopportabile agrezza della begonia quando la si schiaccia tra i denti; e mi rosicchiavo le unghie, esultante. Al mattino, nel varcare il cancello della scuola, pura com’ero con il mio caffellatte e la mia faccia al sapone, era un colpo trovarmi di fronte in carne e ossa l’uomo che mi aveva fatto fantasticare per un abissale minuto prima di addormentarmi. In superficie di tempo era stato un momento soltanto, ma in profondità erano secoli di oscurissima dolcezza. Al mattino — come se io non avessi fatto conto della reale esistenza di colui che aveva scatenato i miei tenebrosi sogni d’amore — al mattino, davanti a quell’uomo grande con la sua giacca corta, di colpo cadevo nella vergogna, nella perplessità e nella paurosa speranza. La speranza era il mio peccato più grande.
Ogni giorno si rinnovava la lotta meschina che avevo intrapresa per la salvezza di quell’uomo. Io volevo il suo bene, e in cambio lui mi odiava. Amareggiata, ero diventata il suo demonio e il suo tormento, simbolo dell’inferno che doveva essere per lui istruire quel branco scanzonato di menefreghisti. Ed ormai era diventato un piacere terribile il non lasciarlo in pace. Il gioco, come sempre, mi affascinava. Senza sapere che obbedivo ad antiche tradizioni, ma con una scienza che i malvagi hanno in sé dalla nascita — quei malvagi che si rosicchiano le unghie da far paura —, senza sapere che obbedivo a una delle cose che succedono più spesso nel mondo, io ero la prostituta e lui il santo. No, forse non è questo. Le parole mi precedono e mi oltrepassano, mi tentano e mi modificano, e se non sto attenta sarà troppo tardi: le cose saranno dette senza che io le abbia dette. O, per lo meno, non era soltanto questo. La mia confusione è questa, che un tappeto è composto di tanti fili che non so rassegnarmi a seguire un filo solo; e il mio imbarazzo viene dal fatto che una storia è composta di molte storie. E non tutte le posso raccontare — una parola troppo vera potrebbe, di eco in eco, far precipitare giù per la china le mie alte valanghe. Quindi non parlerò più del vortice che si formava dentro di me mentre fantasticavo prima di addormentarmi. Altrimenti io stessa finirei per credere che fosse soltanto quella soave voragine a spingermi verso di lui, dimenticando la mia disperata abnegazione. Ero diventata la sua seduttrice, dovere che nessuno mi aveva imposto. Era un peccato che fosse caduto nelle mie mani sbagliate il compito di salvarlo per mezzo della tentazione, perché tra tutti gli adulti e i bambini di quell’epoca ero probabilmente la meno indicata. «Questo non è fiore da odorare», come diceva la nostra domestica. Ma era come se, sola con un alpinista paralizzato dal terrore del precipizio, io, per inesperta che fossi, non potessi esimermi dal tentativo di aiutarlo a scendere. Il maestro aveva avuto la sfortuna che fosse proprio la più imprudente a restare sola con lui sui suoi dirupi. Per rischiosa che fosse la parte mia, dalla mia parte ero obbligata a trascinarlo, perché la sua era mortale. Ed era quello che facevo, come un bambino molesto tira un grande per un lembo della giacca. Lui non guardava indietro, non domandava che cosa volevo, e si liberava di me con uno strattone. Io continuavo a tirarlo per la giacca, il mio unico strumento era l’insistenza. E di tutto questo lui si accorgeva solo che io gli strappavo le tasche. Vero è che neppure io stessa sapevo con esattezza quello che stavo facendo, la mia vita col maestro era invisibile. Ma sentivo che il mio ruolo era malvagio e pericoloso: mi spronava l’ingordigia di una vita reale che tardava a venire, e peggio che maldestra, provavo anche gusto a strappargli le tasche. Solo Dio avrebbe perdonato ciò che ero, perché Lui soltanto sapeva di che cosa mi aveva fatta e per che cosa. Io, perciò, mi lasciavo essere materia di Lui. Essere materia di Dio era la mia unica bontà. E la fonte di un nascente misticismo. Non misticismo per Lui, ma per la materia di Lui, ma vita dura e piena di piaceri: ero un’adoratrice. Accettavo la vastità di ciò che non conoscevo, e ad essa mi affidavo tutta, con segreti da confessionale. Era verso le tenebre dell’ignoranza che inducevo il maestro? e con l’ardore di una monaca nella sua cella. Monaca giuliva e mostruosa, ahimè. E neppure me ne sarei potuta vantare: in classe eravamo tutti parimenti mostruosi e soavi, avida materia di Dio.
Ma se mi facevano tenerezza le sue grandi spalle rattrappite e la sua giacchetta striminzita, le mie risate ottenevano soltanto che lui, fingendo, e con che fatica, di dimenticarmi, a forza di autocontrollo si contraesse ancora di più. L’antipatia che quell’uomo provava per me era così forte che io mi detestavo. Finché le mie risa andarono sostituendo definitivamente la mia gentilezza impossibile.
Imparare, a quelle lezioni, non imparavo. Il gioco di renderlo infelice si era impadronito troppo di me. Sopportando con disinvolta amarezza le mie lunghe gambe e le scarpe sempre scalcagnate, umiliata perché non ero un fiore, e soprattutto torturata da un’infanzia enorme, che temevo non dovesse terminare mai più — lo rendevo più infelice e scuotevo alteramente la mia unica ricchezza: i capelli sciolti che mi ripromettevo di abbellire un giorno con la permanente e che nell’attesa mi esercitavo ad agitare. Studiare non studiavo, fiduciosa nella mia fannullaggine a successo garantito, che il maestro scambiava, essa pure, come un’ulteriore provocazione da parte di quell’odiosa ragazzina. In questo però non aveva ragione. La verità è che per studiare di tempo non me ne avanzava. I divertimenti mi assorbivano, lo stare attenta mi prendeva giorni e giorni; c’erano i libri di favole, che leggevo rosicchiandomi per la passione le unghie fino all’osso nelle mie prime estasi di malinconia, una raffinatezza che avevo già scoperta; c’erano dei ragazzini che io avevo scelti e che non mi avevano scelta, e io perdevo ore a soffrire perché essi erano inattingibili, e poi altre ore ancora di sofferenza per accettarli con tenerezza, perché l’uomo era per me il re del Creato; c’era la speranzosa minaccia del peccato, che con timore mi dedicavo ad aspettare; senza dire che ero permanentemente occupata a volere e non volere essere ciò che ero, non sapevo decidermi per quale di me, ma tutta me non potevo proprio; l’esser nata era pieno di errori da correggere. No, non era per irritare il maestro che non studiavo; avevo tempo soltanto per crescere. E lo facevo in tutte le direzioni, con una goffaggine che sembrava piuttosto un errore di calcolo: le gambe non combinavano con gli occhi, e la bocca era emozionata mentre le mani si ramificavano, sporche come erano nella gran fretta crescevo senza sapere da che parte. Il fatto che un ritratto di quell’epoca mi riveli, viceversa, come una bambina ben piantata, selvaggia e soave, occhi pensosi sotto la pesante frangetta, tale ritratto reale non mi smentisce, non fa altro che rivelare una fantasmagorica estranea, che io, se fossi sua madre, non comprenderei. Solo molto più tardi, dopo che mi fui finalmente organizzata in un corpo e mi sentii fondamentalmente più sicura, potei avventurarmi a studiare un poco; prima, però, non potevo arrischiarmi a imparare, non volevo frastornarmi — intuitivamente avevo cura di ciò che ero, giacché non sapevo che cos’ero, e con vanità coltivavo l’integrità della mia ignoranza. È un peccato che il maestro non sia arrivato a vedere ciò che inaspettatamente sarei diventata quattro anni dopo: a tredici anni, le mani pulite, fresca di bagno, tutta composta e carina, mi avrebbe vista come una cartolina di Natale, affacciato al balcone di una villetta. Ma al suo posto era passato di là sotto un mio ex-compagnetto, mi aveva chiamata ad alta voce, senza accorgersi che ormai non ero più un monello, ma una ragazza perbene che non si può più gridare il suo nome per le strade di una città. «Che c’è?» chiesi all’intruso, gelida. Allora mi gridò per risposta la notizia che il maestro era morto all’alba di quel giorno. E bianca, con gli occhi molto aperti, avevo guardato la strada vertiginosa ai miei piedi. La mia compostezza infranta come quella di una bambola rotta.
Tornando a quattro anni prima. Fu forse per tutto ciò che ho raccontato, mescolato e nel suo insieme, che scrissi quel componimento assegnato dal maestro, scioglimento di questa storia e inizio di altre. Oppure fu soltanto per la fretta di terminare il compito in qualsiasi modo per correre a giocare in giardino.

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— Vi racconterò una storia — egli disse — e voi farete un componimento. Ma con parole vostre. Chi prima finisce non c’è bisogno che aspetti la campanella, può andare subito alla ricreazione.
Ed ecco che cosa raccontò: un uomo poverissimo aveva sognato di aver scoperto un tesoro e di essere diventato ricchissimo; al risveglio aveva preso su ed era partito alla ricerca del tesoro; aveva corso il mondo intero, ma il tesoro non l’aveva trovato; stanco, era tornato alla sua povera, povera casetta; non aveva da mangiare e allora aveva incominciato a coltivare il suo povero orticello; e tanto aveva piantato, tanto aveva raccolto, tanto aveva venduto, che alla fine era diventato ricchissimo.
Lo ascoltai con aria sprezzante, giocando ostentatamente con la matita, come per fargli capire che le sue storie non mi infinocchiavano e che io sapevo bene chi era lui. L’aveva raccontata senza guardarmi neanche una volta. Il fatto è che, non avendo modo per amarlo e per il gusto di infastidirlo, lo perseguitavo anche con lo sguardo: a tutto ciò che diceva, rispondevo con uno sguardo semplice e diretto, del quale nessuno in coscienza mi avrebbe potuto far colpa. Era uno sguardo che rendevo proprio limpido e angelico, molto aperto, come quello del candore che guarda il delitto. E ottenevo sempre lo stesso risultato: lui si turbava, evitava i miei occhi, cominciava a balbettare. Questo mi riempiva di un potere che mi rendeva maledetta. E di pietà. E questo, a sua volta, mi irritava. Mi irritava che egli obbligasse una scemetta qualunque a comprendere un uomo.
Erano quasi le dieci, tra poco avrebbe suonato la campanella della ricreazione. Quella mia scuola, in mezzo a uno dei parchi della città, aveva il più grande campo di giochi mai visto. Era bello per me quanto lo sarebbe stato per uno scoiattolo o per un cavallo. C’erano alberi dappertutto, lunghe salite e discese e distese di prati. Non finiva più. Tutto lì era lontano e grande, fatto per lunghe gambe infantili, e c’era posto per mucchi di mattoni e legname di ignota origine, per viluppi di agre begonie che noi mangiavamo, per sole e ombra dove le api facevano il miele. Là c’era posto per infinita aria libera. E tutto era stato vissuto da noi: ci eravamo già rotolati giù per ogni pendio, avevamo confabulato fitto fitto dietro ogni mucchio di mattoni, e assaggiato svariati fiori e in tutti i tronchi avevano inciso col temperino date, dolci parolacce e cuori trafitti da frecce; bambini e bambine vi facevano il loro miele.
Stavo finendo il mio componimento e l’odore di quelle ombre segrete già mi chiamava. Mi affrettai. Io sapevo solamente «usare parole mie», quindi scrivere era semplicissimo. Mi spingeva poi la voglia di essere la prima ad attraversare la classe — il maestro aveva finito per isolarmi in quarantena nell’ultimo banco — e a consegnargli insolentemente il componimento, per dimostrargli così la mia sveltezza, qualità che mi appariva essenziale per vivere e che, ne ero certa, il maestro doveva per forza ammirare.
Gli consegnai il quaderno e lui lo prese senza neanche guardarmi.
Mortificata, senza un elogio per la mia velocità, in due salti uscii nel gran parco.
La favola che avevo trascritto con parole mie era uguale a quella raccontata da lui. Solo che in quel periodo io stavo incominciando a «trarre la morale dalle favole», il che, se mi santificava, più tardi avrebbe rischiato di soffocarmi con il suo rigore. Con un pizzico di saccenteria avevo quindi aggiunto un finale. Con alcune frasi che qualche ora dopo avrei letto e riletto per capire che cosa poteva esservi in esse di tanto possente da aver finalmente provocato quell’uomo come io fino ad allora non ero riuscita a fare neppure di persona. Probabilmente quello che il maestro aveva voluto sottintendere nella sua triste favola è che il duro lavoro è l’unico modo per riuscire a far fortuna. Ma io, imprudentemente, avevo concluso con la morale opposta: qualcosa sul tesoro nascosto, che sta dove meno si aspetta, che è solo questione di scoprirlo, credo di aver parlato di poveri orti dove erano tesori. Non ricordo più, non so se era precisamente questo. Non riesco a immaginare con quali parole di bambina posso aver esposto un sentimento semplice, che diventa però un pensiero complicato. Suppongo che, distorcendo arbitrariamente il vero significato della favola, in qualche modo io già mi promettevo per iscritto che l’ozio, più che il lavoro, mi avrebbe dato le grandi ricompense gratuite, le uniche a cui aspiravo. È possibile pure che già da allora il motivo conduttore della mia vita fosse l’irragionevole speranza, e che avessi già iniziato la mia grande ostinazione: avrei dato tutto ciò che avevo per niente, ma volevo che tutto mi fosse dato per niente. Al contrario del contadino della favola, nel componimento io mi scrollavo dalle spalle tutti i doveri e ne uscivo libera e povera, e con un tesoro in mano.
Andai alla ricreazione, dove rimasi sola, con l’inutile premio di aver finito per prima, a cincischiare con la terra aspettando impaziente gli altri bambini, che a poco a poco cominciarono a uscire di classe.
A un certo punto dei nostri giochi violenti mi venne in mente di andare a prendere non so più cosa nella cartella, per farla vedere al custode del parco, mio amico e protettore. Tutta bagnata di sudore, rossa di una felicità incontenibile che se fossi stata a casa mi avrebbe procurato qualche schiaffo — volai in classe, l’attraversai di corsa e tanto distrattamente che non vidi il maestro che stava sfogliando i quaderni ammucchiati sulla cattedra. Avevo giàin mano quel che ero andata a prendere e mi stavo rimettendo a correre per tornare indietro — solo allora il mio sguardo inciampò nel maestro.
Solo, in cattedra: mi guardava.
Era la prima volta che ci trovavamo faccia a faccia da soli. Lui mi guardava. I miei passi, già lenti, quasi si fermarono.
Per la prima volta ero sola con lui, senza l’appoggio bisbigliante della classe, senza l’ammirazione che la mia audacia provocava. Cercai di sorridere, sentendo che il sangue mi fuggiva dal viso. Una goccia di sudore mi corse per la fronte. Lui mi guardava. I1 suo sguardo era una zampa morbida e pesante su di me. La zampa era blanda, ma mi paralizzava totalmente come quella di un gatto che senza fretta tiene ferma la coda del topo. La goccia di sudore scese giù per il naso e sulla bocca, dividendo a metà il mio sorriso. Nient’altro: senza alcuna espressione nello sguardo, mi guardava. Incominciai a rasentare la parete a occhi bassi, afferrandomi tutta al mio sorriso, unico tratto di un volto che aveva già perso i suoi contorni. Non mi ero mai accorta quanto fosse lunga la classe; solo adesso, nel lento passo della paura, vedevo le sue vere dimensioni. Né la mia mancanza di tempo mi aveva permesso di accorgermi sino a quel momento di come erano austere e alte le pareti; e dure, sentivo la parete dura contro il palmo della mano. Come in un incubo, del quale il sorridere faceva parte, non riuscivo a credere di poter raggiungere il vano della porta — da dove sarei corsa via, ah, come sarei corsa via! a rifugiarmi in mezzo ai miei pari, ai bambini. Oltre a concentrarmi nel sorriso, la mia zelante cura era di non far rumore coi piedi, e così aderivo all’intima natura di un pericolo di cui ignoravo tutto il resto. Fu con un brivido che a un tratto mi indovinai come in uno specchio: una cosa umida che strisciava lungo il muro, che avanzava adagio in punta di piedi, e con un sorriso sempre più intenso. Il mio sorriso aveva cristallizzato la classe in silenzio, e anche i rumori che venivano dal parco scorrevano all’esterno di quel silenzio. Giunsi finalmente alla porta, e il cuore imprudente si mise a battere troppo forte, a rischio di svegliare il gigantesco mondo che dormiva.
Fu allora che udii il mio nome.
Inchiodata a terra di botto, con la bocca arida, rimasi lì dandogli le spalle, senza il coraggio di voltarmi. La brezza che entrava dalla porta finì per asciugarmi il sudore addosso. Mi girai adagio, trattenendo dentro i pugni chiusi la voglia di scappare.
Al suono del mio nome la stanza si era disipnotizzata.
E adagio adagio vidi il maestro tutto intero. Adagio adagio vidi che il maestro era molto grande e molto brutto, e che era l’uomo della mia vita. La nuova e grande paura. Piccola, sonnambula, sola dinanzi a ciò a cui la mia fatale libertà mi aveva alfine condotta. Il mio sorriso, tutto quello che era rimasto di un volto, si era spento esso pure. Io ero due piedi irrigiditi a terra e un cuore tanto vuoto che pareva stesse morendo di sete. Rimasi lì, fuori dalla sua portata. Il mio cuore moriva di sete, sì. I1 mio cuore moriva di sete.
Calmo come prima di uccidere freddamente disse: — Vieni più vicino...
Possibile che un uomo si vendicasse?
Avrei ricevuto di ritorno in piena faccia la palla di mondo che io stessa gli avevo gettata, ma che non per questo conoscevo. Avrei ricevuto di ritorno una realtà che non sarebbe esistita se io non l’avessi temerariamente indovinata, con ciò dandole vita. Fino a che punto quell’uomo, montagna di compatta tristezza, era anche montagna di furia? Ma il mio passato era adesso troppo tardi. Un pentimento stoico mantenne eretto il mio capo. Per la prima volta l’ignoranza, che fino ad allora era stata la mia grande guida, mi abbandonava. Mio padre era al lavoro, mia madre era morta da pochi mesi. Io ero l’unico io.
Prendi il tuo quaderno... — soggiunse.
La sorpresa mi spinse a un tratto a guardarlo. Allora era soltanto questo? L’inaspettato sollievo fu un’emozione quasi più forte dello spavento di prima. Avanzai di un passo, tesi la mano balbettante.
Ma il maestro rimase immobile e non mi dette il quaderno.
Per mia subita tortura, senza staccarmi gli occhi di dosso, si tolse lentamente gli occhiali. E mi guardò con occhi nudi che avevano molte ciglia. Non avevo mai visto i suoi occhi, che con tutte quelle ciglia sembravano due patate dolci. Mi guardava. E io non seppi come esistere dinanzi a un uomo. Mi detti un contegno guardando il soffitto, il pavimento, le pareti, e continuavo a tenere la mano tesa perché non sapevo come ritirarla. Lui mi guardava paziente, curioso, e con gli occhi spettinati come se si fosse appena svegliato. Mi avrebbe battuta con mano inattesa? O costretta ad inginocchiarmi e a chiedere perdono. Il mio filo di speranza era che non sapesse che cosa gli avevo fatto, come anch’io ormai non lo sapevo più, in realtà non l’avevo mai saputo.
— Come ti è venuta in mente l’idea del tesoro che si nasconde?
— Che tesoro? — mormorai imbambolata.
Rimanemmo a fissarci in silenzio.
— Ah, il tesoro! — d’un tratto mi precipitai, anche senza capire, nell’ansia di ammettere qualsiasi fallo, implorandolo che il mio castigo consistesse solo nel soffrire per sempre per una colpa, che la tortura eterna fosse la mia punizione, ma non quella vita sconosciuta.
— Il tesoro che si cela dove meno ci si aspetta. Che basta scoprire. Chi te l’ha detto?
Questo è ammattito, pensai, che c’entra il tesoro? Attonita, senza capire, e avanzando da inaspettato a inaspettato, presentii tuttavia un terreno meno pericoloso. Nelle mie corse avevo imparato ad alzarmi dopo le cadute anche zoppicando, e mi ripresi subito: «è stato il tema sul tesoro! allora deve essere stato quello il mio sbaglio!» Debole, e pur tastando ancora con prudenza il terreno della mia nuova e sdrucciolevole sicurezza, mi ero già rialzata dalla caduta quanto bastava per riuscire a scuotere, in una specie di imitazione dell’antica arroganza, la mia futura chioma ondulata:
— Nessuno, chi me lo doveva dire... — risposi zoppicando. L’ho inventato da sola — dissi tremula, eppure ricominciando già a far faville.
Se mi sentivo sollevata perché finalmente avevo una cosa concreta tra le mani, mi stavo anche rendendo conto di un fatto assai peggiore. L’improvvisa mancanza di collera da parte sua. Lo guardai di sottecchi, imbarazzata. E via via sempre più insospettita. La sua mancanza di collera aveva incominciato a spaventarmi, aveva minacce nuove che non capivo. Quello sguardo che non mi abbandonava — e senza collera... Perplessa, e senza nulla in cambio, io stavo perdendo il mio nemico e il mio sostegno. Lo guardai sorpresa. Che cosa mai voleva da me? Mi metteva a disagio. E il suo sguardo senza collera mi infastidiva ora più della brutalità che avevo temuta. Una paura piccola, tutta fredda e sudata, si andò impossessando di me. Pian piano, perché non se ne accorgesse, arretrai con le spalle fino a trovare la parete, poi la testa arretrò sino a non poter andare oltre. E da quella parete, dove mi ero incastonata completamente, furtivamente lo guardai.
Lo stomaco mi si riempì di una liquida nausea. Non so descriverla. Io ero una ragazzina molto curiosa e, impallidendo, vidi. Agghiacciata, sul punto di vomitare, sebbene ancor oggi non sappia ciò che vidi esattamente. Ma so che vidi. Vidi così in fondo, come dentro una bocca, d’un tratto vedevo l’abisso del mondo. Quel che vedevo era anonimo come un ventre aperto per un’operazione all’intestino. Vidi una cosa che si stava formando sul suo viso — il malessere ormai pietrificato saliva faticosamente fino alla sua pelle, vidi la smorfia che lentamente esitava e rompeva una crosta — ma quella cosa che in muta catastrofe si sradicava, questa cosa rassomigliava ancora così poco a un sorriso come se un fegato o un piede tentassero di sorridere, non so. Quel che vidi, lo vidi così da vicino che non so cosa vidi. Come se il mio occhio curioso si fosse incollato al buco della serratura e trasalendo si fosse incontrato dall’altra parte con un altro occhio incollato che mi guardava. Io vidi dentro a un occhio. Un occhio aperto con la sua gelatina mobile. Con le sue lacrime organiche. Da solo l’occhio piange, da solo l’occhio ride. Finché lo sforzo del maestro si completò, tutto intento,e in vittoria infantile mostrò, perla strappata dal ventre aperto — che stava sorridendo. Io vidi un uomo con le viscere che sorridevano. Vedevo la sua estrema apprensione per non sbagliare, la sua diligenza di alunno lento, il suo impaccio come se improvvisamente fosse diventato mancino. Senza capire, sapevo che mi si chiedeva di ricevere la resa di lui e del suo ventre aperto, e che ricevessi il suo peso d’uomo. Le mie spalle forzarono disperatamente la parete, arretrai — era troppo presto perché vedessi tanto. Era troppo presto perché vedessi come nasce la vita. Il nascere della vita era talmente più cruento che morire. Morire è ininterrotto. Ma vedere la materia inerte che lentamente tenta di sollevarsi come un grande morto-vivo... Vedere la speranza mi terrorizzava, vedere la vita mi sconvolgeva lo stomaco. Stavano chiedendo troppo al mio coraggio solo perché ero coraggiosa, chiedevano la mia forza solo perché ero forte. «Ma, e io?», gridai dieci anni dopo per motivi di amore perduto, «chi verrà mai alla mia debolezza!» Lo guardavo sorpresa e per sempre non seppi che cosa vidi, quel che avevo visto avrebbe potuto accecare i curiosi.
Allora egli disse, usando per la prima volta il sorriso che aveva imparato:
— Il tuo tema sul tesoro è così bello. Il tesoro che basta scoprire. Tu... — per un momento non disse altro. Mi scrutò dolcemente indiscreto, intimo come se fosse il mio cuore. — Sei una bambina molto strana — disse alla fine.
Fu la prima vera vergogna della mia vita. Abbassai gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo indifeso di quell’uomo che avevo ingannato.
Sì, la mia impressione era che lui, malgrado la sua collera, in qualche modo aveva avuto fiducia in me, e che allora l’avevo ingannato con quella fandonia del tesoro. A quell’epoca pensavo che tutto ciò che si inventa è bugia, e soltanto la mia coscienza tormentata dal peccato mi redimeva da quel vizio. Abbassai gli occhi per la vergogna. Preferivo la sua collera di prima, che mi aveva aiutato nella sua lotta contro me stessa, perché coronava d’insuccesso i miei sistemi e forse un giorno avrei finito col correggermi: quello che non volevo era questo ringraziamento che non soltanto era per me la peggiore delle punizioni, perché non lo meritavo, ma incoraggiava pure la mia vita sbagliata che tanto temevo, vivere sbagliato mi attraeva. Avrei voluto anche avvisarlo che non si trovano tesori per caso. Ma, guardandolo, mi mancò il coraggio: non avevo la forza di disilluderlo. Mi ero già abituata a proteggere la gioia degli altri, quella di mio padre, ad esempio, che era più imprevidente di me. Ma come mi fu difficile mandar giù questa gioia che tanto irresponsabilmente avevo causata! Sembrava un mendico che ringraziasse per il piatto di cibo senza accorgersi che gli avevano dato carne andata a male. Il sangue mi era salito al viso, così caldo, ora, che mi pareva di avere gli occhi fuori dalla testa, mentre lui, probabilmente per un altro errore, doveva pensare che ero arrossita di piacere per il suo elogio. Quella notte stessa tutta la storia si sarebbe trasformata in un’inarrestabile crisi di vomito, che avrebbe tenuto accese tutte le luci di casa mia.

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— Tu — egli ripeté allora lentamente come se a poco a poco stesse ammettendo con piacevole sorpresa quanto gli era venuto alle labbra per caso —, tu sei una bambina molto strana, sai? Sei una pazzerella... — disse, usando ancora il sorriso come un ragazzino che dorme con le scarpe nuove. Non sapeva neppure che era brutto, quando sorrideva. Fiducioso, mi lasciava vedere la sua bruttezza, che era la sua parte più innocente.
Dovetti inghiottire come potei l’offesa che mi faceva fidandosi di me, dovetti inghiottire la pietà per lui, la vergogna per me, «sciocco!» avrei voluto gridargli, «quella storia del tesoro nascosto l’ho inventata, è solo una cosa da ragazzina!» lo avevo la precisa coscienza di essere una bambina, e questo spiegava tutti i miei gravi difetti, e avevo riposto tanta fiducia nel fatto che un giorno sarei cresciuta — e quell’uomo grande e grosso si era lasciato ingannare da una sfrontatella. Egli uccideva in me per la prima volta la mia fiducia negli adulti: anche lui, che era un uomo, credeva come me nelle grandi menzogne...
... E all’improvviso, con il cuore palpitante di delusione, non resistetti più neppure per un attimo — senza prendere il quaderno corsi via verso il parco, la mano sulla bocca come se mi avessero rotto i denti. Con la mano sulla bocca, atterrita, correvo, correvo per non fermarmi mai, la prece profonda non è quella che chiede, la prece più profonda è quella che non chiede più — io corsi, correvo molto spaventata.
Nella mia impurità avevo deposto negli adulti la mia speranza di redenzione. La necessità di credere nella mia futura bontà faceva sì che venerassi i grandi, che avevo fatti a mia immagine, ma a una immagine di me finalmente purificata dalla penitenza della crescita, libera finalmente dalla sporca anima di bambina. E tutto questo il maestro ora lo distruggeva, e distruggeva il mio amore per lui e per me stessa. Salvarmi sarebbe stato impossibile: quell’uomo era anche me. Il mio amaro idolo che era caduto ingenuamente nelle astuzie di una bambina confusa e senza candore, e che si era lasciato docilmente guidare dalla mia diabolica innocenza... Tappandomi la bocca con la mano, correvo nella polvere del parco.
Quando finalmente mi accorsi di essere ben lontana dall’orbita del maestro, frenai esausta la corsa, e quasi sul punto di cadere mi appoggiai con tutto il peso del corpo al tronco di un albero, respirando forte, respirando. Lì rimasi ansimante e a occhi chiusi, sentendo in bocca l’amaro polveroso del tronco, le dita passavano e ripassavano meccanicamente sulla dura incisione di un cuore con freccia. E a un tratto, stringendo gli occhi chiusi, gemetti nel comprendere un po’ di più: forse lui voleva dire che... che io ero un tesoro nascosto? Il tesoro dove meno ci si aspetta... Oh no, no, poveretto, povero re del Creato, a tal punto aveva avuto bisogno... di che cosa? di che cosa aveva avuto bisogno?... che persino io mi trasformassi in tesoro.
Avevo ancora molta altra corsa dentro di me, forzai la mia gola secca a riprender fiato, e respingendo rabbiosamente il tronco dell’albero ripresi a correre in direzione della fine del mondo.
Ma non avevo ancora scorto l’ombroso confine del parco, e già i miei passi si andarono facendo più lenti dalla troppa stanchezza. Non ce la facevo più. Era forse per la fatica, ma stavo crollando. Erano passi sempre più lenti e il fogliame degli alberi ondeggiava lentamente. Erano passi un po’ incantati. Esitando mi fermai, gli alberi roteavano alti. È che una dolcezza assai strana affaticava il mio cuore. Intimidita, esitavo. Ero sola nel prato, reggendomi in piedi a fatica, senza punti d’appoggio, con una mano sul petto stanco come quella di una vergine annunciata. E piegando stanca a quella prima dolcezza un capo finalmente umile che da molto lontano poteva forse ricordare quello di una donna. La chioma degli alberi ondeggiava avanti e indietro. «Sei una bambina molto strana, sei una pazzerella», aveva detto. Era come un amore.
No, io non ero strana. Senza neppure saperlo ero molto seria. No, non ero pazzerella, la realtà era il mio destino ed era proprio questo che feriva gli altri. E, per Dio, io non ero un tesoro. Ma se già prima avevo scoperto in me tutto l’avido veleno con cui si nasce e con cui si rode la vita — solo in quell’attimo di miele e fiori scoprivo in che modo sarei guarita: se uno mi avesse amata, così avrei guarito chi avesse sofferto per me. Io ero l’oscura ignoranza con le sue fami e le sue risa, con le piccole morti che alimentavano la mia inevitabile vita che cosa potevo fare? Io sapevo già di essere inevitabile. Ma anche se non valevo niente, ero stata tutto ciò che quell’uomo aveva avuto in quel momento. Almeno una volta egli doveva amare, e anche se non qualcuno — attraverso qualcuno. E là c’ero stata solo io. Eppure era proprio questo il suo unico vantaggio: avendo soltanto me, e obbligato ad amare per prima cosa il cattivo aveva incominciato con ciò che pochi arrivano a raggiungere. Sarebbe stato troppo facile amare il pulito; irraggiungibile dall’amore era il brutto, amare l’impuro era la nostra più profonda nostalgia. Attraverso me, la difficile da amare, egli aveva ricevuto, con grande carità verso se stesso, ciò di cui siamo fatti. Compresi io tutto questo? No. E non so che cosa sul momento compresi. Ma come per un attimo avevo visto nel maestro, con atterrito fascino, il mondo — e ancora adesso non so capire che cosa vidi, — solo che per sempre e in un secondo io vidi — cosi compresi noi tutti, e non saprò mai che cosa compresi. Non saprò mai ciò che comprendo. Qualsiasi cosa io abbia compreso nel parco, fu, in un sussulto di dolcezza, compreso dalla mia ignoranza. Ignoranza che lì in piedi — in una solitudine senza dolore, non minore di quella degli alberi — ricuperavo intera, l’ignoranza e la sua verità incomprensibile. Eccomi là, bambina troppo sveglia, ed ecco che quanto dipeggio era in me serviva a Dio e agli uomini. Il peggio di me era il mio tesoro.
Come una vergine annunciata, sì. Permettendomi di farlo finalmente sorridere, con questo mi aveva annunciata. Ed aveva finito col trasformarmi in qualcosa di più del re del Creato: aveva fatto di me la donna del re del Creato. Perché proprio a me, così piena di artigli e di sogni, era toccato di strappare dal suo cuore la freccia uncinata. Di colpo era chiaro perché ero nata con le mani dure, e perché ero nata senza ripugnanza per il dolore. A cosa ti servono quelle unghie lunghe? Per graffiarti a morte e per estirpare i tuoi crucci mortali, risponde il lupo dell’uomo. A cosa ti serve quella crudele bocca affamata? Per morderti e per soffiare perché io non ti dolga troppo, amor mio, giacché debbo farti del male, io sono il lupo inevitabile, poiché mi è stata donata la vita. A cosa tiservono quelle mani che bruciano e afferrano? Per tenerci per mano, perché ne ho tanto tanto tanto bisogno — ulularono i lupi, e guardarono intimiditi i propri artigli prima di accoccolarsi uno contro l’altro per amare e dormire... E fu così che nel gran parco della scuola lentamente cominciai a imparare ad essere amata, sopportando il sacrificio di non meritarlo, solo per addolcire la pena di chi non ama. No, questo era soltanto uno dei motivi. Ma gli altri fanno parte di altre storie. E in qualcuna è stato dal mio cuore che altri artigli pieni di duro amore hanno divelto la freccia uncinata, e senza scomporsi al mio grido.



Clarice Lispector (1920-1977), Os desastres de Sofia

(Da A legião estrangeira, 1964 — tratto da Sagarana.it)

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