Attraverso la fessura del fasciame la luce a pelo dell’acqua apparve fosca, vischiosa, una poltiglia così densa da potersi toccare, se non si fosse sparpagliata e franta solo a tentarla con l’occhio. Luce... ma che luce è mai una luce che non è di sole né di luna, ma è solo una verdeoliva oleosa evanescenza, un ondoso olio d’aria rappreso attorno allo scafo? Veniva voglia di batterla con un remo, di pungerla con un arpione: una cosa nemica, fra le tante nuvole che sorgevano dai gorghi e vi esitavano sopra a galleggiare, prima scomparse che apparse: tronchi bruni d’alberi, flotte di gonfi annegati, brandelli di nuvola nera prigionieri fra due creste, minacciose fate morgane...
Noè era stanco di sbarrare giorno e notte le pupille fra l’uno e l’altro sguancio della feritoia come da un secondo astuccio di palpebre; stanco di dover fissare sempre lo stesso riquadro di cataclisma dalla sua seggiola di sentinella, mai lasciandosi distrarre dal pandemonio di voci animali e umane che gli tuonava dietro
le spalle...
Non aveva voluto saperne sin dal principio, di mischiarsi con l’immane ciurma, nemmeno coi più intimi ch’erano carne e sangue suoi; meno che mai con le nature più estranee. Mangiassero, copulassero, dormissero pure a piacere, giù nella pancia dell’arca... Lui s’era accucciato in una gabbia da gabbiere, con solamente una ciotola accanto, dove silenziosamente al mattino la sua donna sarebbe venuta a deporre la razione del mangiare e del bere. Qui s’era alloggiato e vegliava, incidendo con un ferruzzo una tacca nel legno, per ogni giorno di diluvio che la Voce aveva annunziato. Ora alla fine di quella notte le tacche sarebbero state centocinquanta.
Un mattino Noè decise di venir fuori. La colomba era tornata e ripartita, tornata ancora e ripartita ancora. Ormai lui non s’aspettava più che tornasse e il cuore gliene era radioso. Uscì col ramoscello d’ulivo in mano, cautamente toccò col piede scalzo la coltre di fango giallo dove la nave s’era chetata.
I primi passi furono d’ubriaco. Eppure s’avviò coraggioso, affondando fino al ginocchio, su per un crinale che prometteva un belvedere, lassù. Passo passo guadagnò la cima, da una balconata di roccia s’affacciò finalmente, avido di battezzare e amare con gli occhi la vergine terra. E la vide e la amò: sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante, oh quanto rutilante, di festa e di gioventù!
Quando ridiscese, lo attrasse un rimasuglio triangolare d’acqua in una cavità della pietra. Non gli dispiacque la faccia che vi specchiò, cotta dal sale e dal vento, arata da mille spaventi. Una faccia ch’era maestosa d’anni, ma, insieme, acerba e attonita, tale e quale la terra, e altrettanto corrusca di un sotterraneo sorriso. Il quale divenne riso spiegato, udendo il subbuglio davanti all’uscio dell’arca, donde, senza più legge, le famiglie pedestri, volatili e rettili sciamavano fuori, correndo, strisciando, volando a grotte, nidi, covili. I suoi stessi figli, Sem, Cam e Jafet, vide andarsene, ciascuno per la sua strada. Solo la donna taceva, in piedi accanto a lui, e lui le carezzò con la mano i capelli.
“Guarda”, le disse e mostrò col gesto la terra, gli arcipelaghi, i golfi, il cristallo dell’aria, le peripezie delle valli e dei fiumi, il teatro degli orizzonti. Un tanfo di putredine dolciastra se ne levava tuttora, ma nel limo già misteriosi semi fiorivano, diamanti di stille pendevano dalle fronde, radici si tendevano a berle, occhi di creature scintillavano freschi nell’erba.
Il vecchio volse il capo al cielo, aspettando. Il cielo era azzurrissimo e vuoto, dove un arcobaleno ironico impallidiva. Poi una colomba apparve lassù, la sua colomba, e sembrava sbandare con ali goffe, sbalordita dal sole. Noè non s’avvide del falco, sentì solo un frullo, uno strido e piombargli un’ombra bianca fra i piedi, spruzzargli le gambe col sangue della sua gola squarciata.
Ma come? Noè aguzzò occhi e orecchi sospettosi sul mondo. Stupefatto e sospettoso spiava il mondo redento. E udì le voci irose dei figli, vide su un sasso chiudersi un pugno, un ragno tessere fra due steli una tela e una mosca ronzarvi accanto. Un lupo urlò dietro un agnello, una vipera morse un calcagno... Ma come? L’uomo chiese con gli occhi alla donna e la donna gli rispose con gli occhi. Una lacrima scorse a Noè lungo la gota, si mischiò col pelame del mento. Lui la pulì col rovescio della mano, curvò le spalle, s’incamminò.
“Ma come?” si domandava.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), L’uscita dall’arca ovvero Il disinganno (tratto da L’uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani 1986)
(Immagini: sMASHsHELL)
Noè era stanco di sbarrare giorno e notte le pupille fra l’uno e l’altro sguancio della feritoia come da un secondo astuccio di palpebre; stanco di dover fissare sempre lo stesso riquadro di cataclisma dalla sua seggiola di sentinella, mai lasciandosi distrarre dal pandemonio di voci animali e umane che gli tuonava dietro
le spalle...
Non aveva voluto saperne sin dal principio, di mischiarsi con l’immane ciurma, nemmeno coi più intimi ch’erano carne e sangue suoi; meno che mai con le nature più estranee. Mangiassero, copulassero, dormissero pure a piacere, giù nella pancia dell’arca... Lui s’era accucciato in una gabbia da gabbiere, con solamente una ciotola accanto, dove silenziosamente al mattino la sua donna sarebbe venuta a deporre la razione del mangiare e del bere. Qui s’era alloggiato e vegliava, incidendo con un ferruzzo una tacca nel legno, per ogni giorno di diluvio che la Voce aveva annunziato. Ora alla fine di quella notte le tacche sarebbero state centocinquanta.
Quantunque non ci fosse modo in quel frangente di pilotarla, l’imbarcazione era a regola d’arte e Noè se ne sentiva umilmente orgoglioso. Così agile come robusta, calafatata dentro e di fuori, lunga trecento cubiti, larga cinquanta, alta trenta... E mandava, sferzata dall’uragano, un aroma di resina così pungente da convincere il cuore a durare. Gli bastava, a Noè, quando più fosse cupa l’aria, e più fischiassero i venti, e più sembrasse approssimarsi la fine, sdraiarsi sul fondo della chiglia, dove appena un breve spessore resisteva fra la sua carne e l’abisso, gli bastava respirare a piene narici quell’odore di legno, ch’era odore di bosco e d’altura, e di vita ancora viva, domestica e innocente, per esilararsene il cuore. Una casa era l’arca, e sorvolava il fiume di tenebre, irrisoria e inaffondabile come una piuma d’uccello.
Più che una piuma, in verità, ai suoi occhi di capitano. Piuttosto, uno sprone di monte natante, una fortezza a più piani, con un tetto di travi in croce, e una porta sigillata di doppia pece. L’arca! L’uomo quasi l’amava dopo tanti giorni. E per farsene meglio padrone, s’era costruita una scala di corda, con cui arrampicarsi da un piano all’altro, svelto a onta degli anni, ch’erano innumerevoli, e sempre in moto, su e giù, qui a osservare da uno spiraglio l’onda, come ruggiva e si muoveva torbida e ostile, lì, dalla specola più alta, legato a un palo, se mai gli giungesse dall’orizzonte un indizio di remissione. Senza mai scorgere, a vista d’occhio, che un incombere e franare di cataratte di piombo, muraglie cieche che solo all’ultimo momento s’aprivano davanti al guscio di pino, salvo a riagguantarlo subito e giocare a rilanciarselo, mentre lui nella sua gabbia vegliava, oscuramente pago di abitare entro la liquida furia, come un tempo, prima di sgusciarne per vivere, nel lago del grembo materno.
Ora fra l’uomo e quel corpo d’acqua, quella bestia sterminata, da centocinquanta giorni una fatidica sfida vigeva. Non anche una pace, domani? Lui non sapeva cosa rispondersi, sebbene ogni tanto, meno per offa che per disprezzo, rapisse da bordo una provvista qualunque da lanciare in bocca al nemico, godendo di vederla un istante ballare in tondo sul vortice, prima di sprofondare e sparire...
Tese l’orecchio, un tumulto di voci giungeva da un luogo invisibile, alle sue spalle. I tre figli stavano certo giocando ai soliti dadi, davanti alla solita platea delle mogli. Mentre il resto dell’equipaggio giaceva, le bestie impure e le pure, ciascuna coppia stivata nel suo spicchio di cella, sepolta in un’ottusa ignavia di succubi. Meglio così. Avrebbe saputo badare da solo alla poca manovra possibile, come in tutti questi mesi aveva fatto, numerando i giorni e le notti, in assenza d’astri, secondo le vicende del vegliare e dormire, a cui fortunatamente le sue membra obbedivano ancora.
Reliquia dell’esistere, malleveria del riesistere, questa fedeltà delle membra alla veneranda tregua del sonno... Non senza sogni: sogni di quiete presso una siepe, e una musica li guidava. Sogni di terra, di stagioni e stelle, come può ricordarsele un morto. Della terra com’era stata una volta, con spighe e grappoli e brezze e scioltezza d’acque correnti che un barbaglio di sole d’improvviso ferisce. Sogni ch’erano lucine accese, lucine di lucciola accese nel buio di una sola memoria terrena, sopra una tremula tavola, in balia di un oceano; di una sola memoria pulsante in un globo deserto, in corsa attraverso i campi del silenzio eterno da cui la prima volta la Voce era giunta alle sue orecchie…
L’uomo cercò nel cielo un punto che sapeva lui solo, ma sulla sua testa non scorse che una caverna di buio, un crepaccio d’occhio piangente, donde il diluvio sembrava cascare a dirotto, come una piena di lacrime senza sponde. Era Lui, Jahvè, in persona, che piangeva così dall’unico occhio crepato, e il Suo pianto erano il nembo e la notte, il precipizio e la morte. Si sarebbero mai placati, quella collera e quel dolore? Sarebbe mai tornata a parlare la Voce? La stessa che Noè aveva creduto d’udire un mattino, inaudibile agli altri, e vi aveva inteso un giuramento, un’alleanza, un amore… La salvezza, la resurrezione, la vita...
Per la centocinquantesima volta tornò a tuffare lo scandaglio nell’acqua, benché sapesse ch’era vano pretendere di misurarne il livello. Sceglieva per la bisogna le rare pause fra due meteore, quando all’intemperie più clamorosa subentrava la povertà della pioggia, quella diaccia, livida, immutabile caduta... Allora, se per avventura la nave era tornata a rollare nei paraggi di taluna alpe sommersa, di cui attraverso i flutti s’intravvedessero i picchi, e la cui petrosa barriera avesse nei primi tempi consentito un rifugio al di qua della cintura delle lagune, se dunque la nave era per sfiorare a perpendicolo un fondale accessibile a un’àncora palombara, il vecchio gettava il suo amo al profondo, incurante di mettere a repentaglio la chiglia contro una punta nascosta. Come stavolta, che intese una commessura stridere sotto i suoi piedi e da una doga sdrucita scorse trapelare e serpignamente invadere il pavimento una lingua di mare scuro. Né si sbigottì, l’uomo, ma fu quasi contento. Poiché quell’intoppo voleva dire che il solido della crosta non era lontano, che una scheggia di suolo terreno aveva toccato, sia pure per ferirli, i suoi figli…
Era il suo primo riconciliarsi con la terraferma, da quando aveva visto dall’arca gli estremi fastigi d’una città colare a picco, inceneriti dal fulmine, friggendo come ferri di forgia immersi dentro un bacile. Fu quasi contento, dunque, e si strappò di dosso le vesti, ne fece una zeppa con cui tappare la fenditura, la rappezzò con mani sapienti. Quindi salì sul tetto e gridò tre volte all’acqua il suo nome.
Centocinquantunesimo giorno. Noè si levò di buonora. Pioveva ancora ma rado. Il cielo era sempre nero, ma d’un nero che vuol pentirsi. Anche l’oceano pareva volesse mutare pelle, trascolorava a ogni colpo di vento, ed erano raffiche rase, di irruenta e generosa natura, gagliardi sospiri e respiri di Dio. Parve al patriarca di udire in quel vento parole, né capiva cosa dicessero, senonché, esponendo le palme fuori della gabbia, le ritirò non meno asciutte di prima, se le passò asciutte sul viso.
Non volle chiamare i figli, non disse nulla alla moglie, bensì s’accucciò nella sua botola a ripensare un pensiero che già prima gli aveva riempito la mente senza che si capisse se era di esultanza o di terrore, un informe pensiero dentro il quale s’addormentò. Quando rinvenne e fu salito sul tetto dell’arca, già nel breve intervallo minuscole eminenze avevano fatto tanto di venire alla luce, si vedevano grondanti risorgere dall’universale naufragio. Ecco qui due argini crescono a inalveare un canale, laggiù si dirama un delta, altrove s’arriccia una sirte. La nave stessa, pur così catramosa e negra, somiglia a una cicogna che nuoti da riva a riva e si festeggi con l’ali.
Allora, come s’affloscia un padiglione o una vela, il tetto di nubi si ripiegò su se stesso, frecce di luce lo ruppero, un arco immenso di sette colori s’incurvò d’improvviso nel cielo. E un sole paonazzo, rotondo, furiosamente felice, sfolgorò sulla terra come su un infinito scudo di rame. L’uomo con un fischio chiamò la colomba sulla sua spalla e da qui con un bisbiglio la mandò verso le cose.
Più che una piuma, in verità, ai suoi occhi di capitano. Piuttosto, uno sprone di monte natante, una fortezza a più piani, con un tetto di travi in croce, e una porta sigillata di doppia pece. L’arca! L’uomo quasi l’amava dopo tanti giorni. E per farsene meglio padrone, s’era costruita una scala di corda, con cui arrampicarsi da un piano all’altro, svelto a onta degli anni, ch’erano innumerevoli, e sempre in moto, su e giù, qui a osservare da uno spiraglio l’onda, come ruggiva e si muoveva torbida e ostile, lì, dalla specola più alta, legato a un palo, se mai gli giungesse dall’orizzonte un indizio di remissione. Senza mai scorgere, a vista d’occhio, che un incombere e franare di cataratte di piombo, muraglie cieche che solo all’ultimo momento s’aprivano davanti al guscio di pino, salvo a riagguantarlo subito e giocare a rilanciarselo, mentre lui nella sua gabbia vegliava, oscuramente pago di abitare entro la liquida furia, come un tempo, prima di sgusciarne per vivere, nel lago del grembo materno.
Ora fra l’uomo e quel corpo d’acqua, quella bestia sterminata, da centocinquanta giorni una fatidica sfida vigeva. Non anche una pace, domani? Lui non sapeva cosa rispondersi, sebbene ogni tanto, meno per offa che per disprezzo, rapisse da bordo una provvista qualunque da lanciare in bocca al nemico, godendo di vederla un istante ballare in tondo sul vortice, prima di sprofondare e sparire...
Tese l’orecchio, un tumulto di voci giungeva da un luogo invisibile, alle sue spalle. I tre figli stavano certo giocando ai soliti dadi, davanti alla solita platea delle mogli. Mentre il resto dell’equipaggio giaceva, le bestie impure e le pure, ciascuna coppia stivata nel suo spicchio di cella, sepolta in un’ottusa ignavia di succubi. Meglio così. Avrebbe saputo badare da solo alla poca manovra possibile, come in tutti questi mesi aveva fatto, numerando i giorni e le notti, in assenza d’astri, secondo le vicende del vegliare e dormire, a cui fortunatamente le sue membra obbedivano ancora.
Reliquia dell’esistere, malleveria del riesistere, questa fedeltà delle membra alla veneranda tregua del sonno... Non senza sogni: sogni di quiete presso una siepe, e una musica li guidava. Sogni di terra, di stagioni e stelle, come può ricordarsele un morto. Della terra com’era stata una volta, con spighe e grappoli e brezze e scioltezza d’acque correnti che un barbaglio di sole d’improvviso ferisce. Sogni ch’erano lucine accese, lucine di lucciola accese nel buio di una sola memoria terrena, sopra una tremula tavola, in balia di un oceano; di una sola memoria pulsante in un globo deserto, in corsa attraverso i campi del silenzio eterno da cui la prima volta la Voce era giunta alle sue orecchie…
L’uomo cercò nel cielo un punto che sapeva lui solo, ma sulla sua testa non scorse che una caverna di buio, un crepaccio d’occhio piangente, donde il diluvio sembrava cascare a dirotto, come una piena di lacrime senza sponde. Era Lui, Jahvè, in persona, che piangeva così dall’unico occhio crepato, e il Suo pianto erano il nembo e la notte, il precipizio e la morte. Si sarebbero mai placati, quella collera e quel dolore? Sarebbe mai tornata a parlare la Voce? La stessa che Noè aveva creduto d’udire un mattino, inaudibile agli altri, e vi aveva inteso un giuramento, un’alleanza, un amore… La salvezza, la resurrezione, la vita...
Per la centocinquantesima volta tornò a tuffare lo scandaglio nell’acqua, benché sapesse ch’era vano pretendere di misurarne il livello. Sceglieva per la bisogna le rare pause fra due meteore, quando all’intemperie più clamorosa subentrava la povertà della pioggia, quella diaccia, livida, immutabile caduta... Allora, se per avventura la nave era tornata a rollare nei paraggi di taluna alpe sommersa, di cui attraverso i flutti s’intravvedessero i picchi, e la cui petrosa barriera avesse nei primi tempi consentito un rifugio al di qua della cintura delle lagune, se dunque la nave era per sfiorare a perpendicolo un fondale accessibile a un’àncora palombara, il vecchio gettava il suo amo al profondo, incurante di mettere a repentaglio la chiglia contro una punta nascosta. Come stavolta, che intese una commessura stridere sotto i suoi piedi e da una doga sdrucita scorse trapelare e serpignamente invadere il pavimento una lingua di mare scuro. Né si sbigottì, l’uomo, ma fu quasi contento. Poiché quell’intoppo voleva dire che il solido della crosta non era lontano, che una scheggia di suolo terreno aveva toccato, sia pure per ferirli, i suoi figli…
Era il suo primo riconciliarsi con la terraferma, da quando aveva visto dall’arca gli estremi fastigi d’una città colare a picco, inceneriti dal fulmine, friggendo come ferri di forgia immersi dentro un bacile. Fu quasi contento, dunque, e si strappò di dosso le vesti, ne fece una zeppa con cui tappare la fenditura, la rappezzò con mani sapienti. Quindi salì sul tetto e gridò tre volte all’acqua il suo nome.
Centocinquantunesimo giorno. Noè si levò di buonora. Pioveva ancora ma rado. Il cielo era sempre nero, ma d’un nero che vuol pentirsi. Anche l’oceano pareva volesse mutare pelle, trascolorava a ogni colpo di vento, ed erano raffiche rase, di irruenta e generosa natura, gagliardi sospiri e respiri di Dio. Parve al patriarca di udire in quel vento parole, né capiva cosa dicessero, senonché, esponendo le palme fuori della gabbia, le ritirò non meno asciutte di prima, se le passò asciutte sul viso.
Non volle chiamare i figli, non disse nulla alla moglie, bensì s’accucciò nella sua botola a ripensare un pensiero che già prima gli aveva riempito la mente senza che si capisse se era di esultanza o di terrore, un informe pensiero dentro il quale s’addormentò. Quando rinvenne e fu salito sul tetto dell’arca, già nel breve intervallo minuscole eminenze avevano fatto tanto di venire alla luce, si vedevano grondanti risorgere dall’universale naufragio. Ecco qui due argini crescono a inalveare un canale, laggiù si dirama un delta, altrove s’arriccia una sirte. La nave stessa, pur così catramosa e negra, somiglia a una cicogna che nuoti da riva a riva e si festeggi con l’ali.
Allora, come s’affloscia un padiglione o una vela, il tetto di nubi si ripiegò su se stesso, frecce di luce lo ruppero, un arco immenso di sette colori s’incurvò d’improvviso nel cielo. E un sole paonazzo, rotondo, furiosamente felice, sfolgorò sulla terra come su un infinito scudo di rame. L’uomo con un fischio chiamò la colomba sulla sua spalla e da qui con un bisbiglio la mandò verso le cose.
Un mattino Noè decise di venir fuori. La colomba era tornata e ripartita, tornata ancora e ripartita ancora. Ormai lui non s’aspettava più che tornasse e il cuore gliene era radioso. Uscì col ramoscello d’ulivo in mano, cautamente toccò col piede scalzo la coltre di fango giallo dove la nave s’era chetata.
I primi passi furono d’ubriaco. Eppure s’avviò coraggioso, affondando fino al ginocchio, su per un crinale che prometteva un belvedere, lassù. Passo passo guadagnò la cima, da una balconata di roccia s’affacciò finalmente, avido di battezzare e amare con gli occhi la vergine terra. E la vide e la amò: sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante, oh quanto rutilante, di festa e di gioventù!
Quando ridiscese, lo attrasse un rimasuglio triangolare d’acqua in una cavità della pietra. Non gli dispiacque la faccia che vi specchiò, cotta dal sale e dal vento, arata da mille spaventi. Una faccia ch’era maestosa d’anni, ma, insieme, acerba e attonita, tale e quale la terra, e altrettanto corrusca di un sotterraneo sorriso. Il quale divenne riso spiegato, udendo il subbuglio davanti all’uscio dell’arca, donde, senza più legge, le famiglie pedestri, volatili e rettili sciamavano fuori, correndo, strisciando, volando a grotte, nidi, covili. I suoi stessi figli, Sem, Cam e Jafet, vide andarsene, ciascuno per la sua strada. Solo la donna taceva, in piedi accanto a lui, e lui le carezzò con la mano i capelli.
“Guarda”, le disse e mostrò col gesto la terra, gli arcipelaghi, i golfi, il cristallo dell’aria, le peripezie delle valli e dei fiumi, il teatro degli orizzonti. Un tanfo di putredine dolciastra se ne levava tuttora, ma nel limo già misteriosi semi fiorivano, diamanti di stille pendevano dalle fronde, radici si tendevano a berle, occhi di creature scintillavano freschi nell’erba.
Il vecchio volse il capo al cielo, aspettando. Il cielo era azzurrissimo e vuoto, dove un arcobaleno ironico impallidiva. Poi una colomba apparve lassù, la sua colomba, e sembrava sbandare con ali goffe, sbalordita dal sole. Noè non s’avvide del falco, sentì solo un frullo, uno strido e piombargli un’ombra bianca fra i piedi, spruzzargli le gambe col sangue della sua gola squarciata.
Ma come? Noè aguzzò occhi e orecchi sospettosi sul mondo. Stupefatto e sospettoso spiava il mondo redento. E udì le voci irose dei figli, vide su un sasso chiudersi un pugno, un ragno tessere fra due steli una tela e una mosca ronzarvi accanto. Un lupo urlò dietro un agnello, una vipera morse un calcagno... Ma come? L’uomo chiese con gli occhi alla donna e la donna gli rispose con gli occhi. Una lacrima scorse a Noè lungo la gota, si mischiò col pelame del mento. Lui la pulì col rovescio della mano, curvò le spalle, s’incamminò.
“Ma come?” si domandava.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), L’uscita dall’arca ovvero Il disinganno (tratto da L’uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani 1986)
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