Dedalo — Mónica Sánchez Escuer

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(Lord Frederick Leighton, Icarus and Daedalus, 1869 ca.)


Siamo tempo, niente dura e vivere è un continuo separarsi.
Octavio Paz

Il mare continua a colpire la riva graffiata, divora la roccia, trascina via il suo sale, disfa tutti i suoi gradini. Il profilo del paesaggio muta lentamente. Già essiccata la tristezza, l’uomo vede come si attenuano i contorni, come si scuriscono, si combinano con il cielo nero. Ancora un giorno sul punto di cadergli sulle spalle, lunghe ore di colpa che gli precipitano addosso il loro peso di lapide. A che serve esser scampato alla prigione?, si domanda. Mesi, anni di pietra, come i muri immani del suo labirinto. Lui, l’inventore del cuneo, dell’ascia e delle vele delle navi, non sa in che modo riottenere il tempo, per suo figlio, coprire il sole, essere di nuovo uccello. Inutile, si afferra al polso inerme, cerca un battito, il calore lieve della carne che è un ricordo del suo braccio. Gli sanguina sabbia annerita dalle nocche. Tra le dita scivolano via i frammenti di un paio di ali rotte, quelle che lui costruì, quelle che portarono Icaro su in alto, fino al sole, e poi sciolsero il suo sogno di volare. E lui, lì, solo, una statua su quel lido senza luci, abbandonato, avverte sotto la sua mano il corpo di suo figlio che si cambia in polvere.


Mónica Sánchez Escuer (Messico), Dédalo


(Tradotto da Historias baldías)

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