Storia spropositata — Adolfo Bioy Casares

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M
entre mi preparano il tè (speriamo che sia ben caldo) voglio provare questo registratore; sarebbe un peccato se per mia negligenza o per un inconveniente meccanico le dichiarazioni del professor Haeckel andassero perdute. Siccome il teuccio si fa aspettare, dirò alcune parole che possono servire da introduzione.
Haeckel è un personaggio strano, sconosciuto al pubblico e rispettato da alcuni biologi, pochi, i più famosi. Posso assicurare che rifugge dai giornalisti. Quando il segretario di redazione, da Buenos Aires, mi ordinò di intervistarlo, iniziai un inseguimento per tutta l’Europa, che è durato un anno.
Oggi pomeriggio sono partito da Ginevra, sicuro che il professore non era in città, ma non sapendo di seguire una buona pista. Sono passato per Briga, mi sono inerpicato su per una strada di montagna, e, al crepuscolo, mi sono ritrovato quasi smarrito in una tempesta di neve. Alla mia sinistra sono comparse, d’improvviso, alcune luci. Leggendo «si vendono catene» ho fermato l’automobile.
Le catene me le ha vendute un individuo che stava sulla porta di un bar. Gli ho chiesto di montarle e sono entrato per bere un bicchiere di acquavite, con un’aspirina, perché avevo la febbre. Per di più, avevo mal di testa, avevo mal di gola, ero raffreddato. Arrivato al banco, mi sono visto circondato da avventori, sicuramente contadini, che mi guardavano di sottecchi, parlavano tra di loro e non nascondevano, di quando in quando, pesanti risate. “Questi sono i saggi del tango”, pensai. Chiesi loro consiglio su come guidare la macchina, attraverso la tormenta di neve, sulla montagna. Mi pare di ricordare che nessuno mi rispose. Mi tornarono alla mente storie raccontate da mio padre, di come i nostri gauchos si burlavano degli stranieri e, se potevano, li mandavano dalla parte sbagliata. Benché non mi aspettassi nessun aiuto, spiegai:
«Proseguirò lungo la strada del Sempione, fino a Domodossola e Locarno».
Uno chiese ad alta voce:
«Glielo diciamo che se comincia a sentirsi troppo solo sulla montagna, si fermi a Gabi?»
«A casa del professore — rispose un altro. — Lì troverà una buona compagnia».
Quell’uscita li divertì oltremodo. Tutti si misero a parlare; nessuno si ricordò più di me. Uscii da quel bar, tastai le catene per assicurarmi che fossero ben sistemate e continuai il viaggio, lungo strade strette fiancheggiate da precipizi, in mezzo a una tormenta di neve che non mi consentiva di vedere dove stavo andando.
Dopo un’interminabile ora di marcia lentissima, durante la quale attraversai gallerie, sentii il rumore delle cascate e mi parve di vedere edifici illuminati che dopo un attimo si dissolvevano nella notte, successe una cosa che non mi spiegai bene. Un’enorme massa bianca investì con forza il fianco destro dell’auto, la fece vacillare e sbandare verso la parete a picco della montagna. Se il colpo fosse venuto dal lato sinistro, non mi sarei salvato dal precipizio. Accelerai. Grazie alle catene, riacquistai il controllo della macchina, ripresi la strada. Non ebbi il coraggio di fermarmi e vedere che cosa era successo. Fu come se allora mi cogliesse tutta la paura di trovarmi da solo, in paraggi sconosciuti, in quella notte spaventosa. Avevo tanta febbre che sognavo ad occhi aperti e forse confondevo i sogni con la realtà. E pensare che mi ero vantato di non perdere mai la testa.
In una valle, apertasi d’un tratto nella montagna scoscesa intravidi una casa appena illuminata. Mi dissi: “Non ce la faccio più”, imboccai un sentiero laterale e fermai la macchina accanto alla casa. Era uno chalet, un villinotto svizzero, con il tetto a due spioventi. Sulla facciata, in caratteri colorati che si intrecciavano con gli angeli paffuti di un affresco, lessi la parola «Gabi».
Scossi il battente della porta. Alla fine venne scostata una tenda e, da dentro, mi scrutarono con una lanterna. Sentii poi un aprirsi di chiavistelli. Pochi istanti dopo provavo una graditissima sorpresa: mi trovavo davanti al professor Haeckel.
Il professore, esile, irrequieto, la testa troppo grande rispetto al corpo, mi invitò affabilmente ad entrare e, quando ubbidii, chiuse la porta con vari chiavistelli, «per non fare entrare anche il freddo». Mi ritrovai in un ingresso, privo di mobili, che nonostante venissi da fuori mi parve gelido. Una scala, di legno di quercia probabilmente, portava al piano di sopra. Haeckel disse:
«Che notte. Dalla sua faccia si vede che è stanco e ha freddo. Venga nel mio studio».
Ha aperto una porta, siamo passati, l’ha richiusa. Forse perché la stanza è piccola, o forse perché non ha altre aperture tranne questa porta, la finestra e il caminetto, dove bruciano tronchi di pino, per la prima volta nella notte mi sono sentito confortato e al sicuro. Mi sono avvicinato alla finestra, ho scostato le tende, ho visto il buio della notte, delle inferriate bianche, e, di traverso, lievi spruzzi di neve.
«Chiuda quella tenda. Fa venir freddo guardare nella notte — ha detto, sorridendo. — Per favore, si sieda accanto al fuoco, mentre vado a preparare un tè».
Rimasto solo, mi sono detto: “La notte, iniziata in modo minaccioso, va a finire bene”. Non voglio esagerare, ma a quanto pare ho dimenticato (il mio organismo ha dimenticato) l’influenza.
Adesso il professore mi porta il tè. Stiamo per cominciare l’intervista.
«Posso chiedere quello che voglio?»
«Quello che vuole».
«Lei pensa di essere un uomo contraddittorio?».
«Direi piuttosto volubile. Impulsivo».
«Per un anno mi è sfuggito e adesso, quando la incontro, sembra contento di vedermi».
«Gliel’ho già detto: sono impulsivo. Lei mi ha raggiunto e, per la fatica che le ho fatto fare, sento di doverle qualcosa. Invece di dispiacermi, accetto volentieri la nuova situazione».
«È ottimista?»
«Sono instabile e, anche, abbastanza indiscreto. Siccome credo che tutto sia precario, non dò molta importanza a nulla, il che spesso mi costa caro. Trovare il lato comico delle situazioni mi riconcilia con il mondo e con il mio destino».
«Si lamenta del suo destino?»
«No, anche se nel destino di un apprendista stregone ci sono alti e bassi».
«Pensa di essere un apprendista stregone?»
«Come qualsiasi ricercatore che contribuisce davvero al progresso della scienza».
«Perché rifiuta le interviste? È timido? O non vuole sottrarre tempo al suo lavoro?»
«Non vedo perché dovrebbero essere queste le ragioni».
«Non le chiami ragioni. Sono pretesti. Tanta gente al giorno d’oggi rifiuta le interviste, che mi domando se non si debba pensare a un’epidemia o a una moda».
«Non è il mio caso».
«A tutti dispiace ammettere di essere condizionati dall’istinto di imitazione. Secondo il sociologo Tarde, è questo il motore della società».
«Magari questo Tarde avrà ragione, ma io evito i giornalisti per un motivo serio. Per me almeno».
«Me lo dica».
«No, non posso».
«Mi pare che definendosi indiscreto sia venuto meno alla verità».
«Va bene. Siamo coerenti: nulla importa nulla. Glielo dirò: c’è qualcuno che mi vuole uccidere».
«Sicché mentre io la cercavo per intervistarla, lei fuggiva da un’altra persona».
«Esattamente».
«Come posso crederci?»
«Evito i giornalisti perché sono indiscreti proprio quanto me. Pur senza farlo apposta, danno indizi e orientano l’uomo che mi cerca».
«Un personaggio abbastanza incredibile».
«Lui sarà incredibile, ma lei è presuntuoso. Ha detto che sono stato contento di vederla. Perché dovrei essere contento di vedere una persona che non conosco?»
«Mi è sembrato che fosse contento».
«Forse, ma non di vedere lei. Di non vedere l’altro».
«E perché quest’altro la vuole uccidere?»
«Come è stato detto, le nostre colpe ci perseguitano. Prima ero medico e solo in seguito mi sono dedicato alla ricerca. Tra i miei pazienti, ce n’era uno che chiamavo il Bue. Era un uomo anziano, alto, forte, serio, di scarsa intelligenza e privo di senso dell’umorismo. Credeva fermamente in se stesso e in poche altre persone, tra cui me. Poiché era perseverante, con il tempo e il lavoro si costruì una situazione che poté dirsi solida quando però ormai non gli rimanevano più molti anni per goderne. Un giorno il Bue mi ricordò una frase che avrei detto in occasione della sua prima visita al mio studio: “In tutte le situazioni, anche in quelle che non hanno via d’uscita, l’intelligenza trova un forellino attraverso il quale riusciamo a fuggire”. Il Bue aggiunse che per quella frase era vissuto sperando».
«Non temeva di deludere un uomo così credulo?»
«A quanto pare, sempre in quel primo incontro, il Bue mi disse che la vecchiaia era una situazione senza via d’uscita, al che io risposi: “Il che non impedisce che un giorno anch’essa ce l’abbia”. Come se non bastasse, gli promisi di cercarla».
«Non si lamenti. Ha promesso troppo».
«Adesso vedrà. Un giorno gli annunciai di aver trovato la cura... Mi creda, anche oggi, dopo tutti i malintesi che ci hanno allontanato, ricordare l’espressione del pover’uomo in quell’ora di speranza mi commuove un po’. Per richiamarlo alla realtà, lo avvertii che non avevo ancora fatto esperimenti. Neanche con animali. Mi disse che non gli rimaneva tempo per aspettare, che provassi con lui. Quando gli parlai di possibili, sgradevoli effetti secondari, mi rivolse una domanda che avevo previsto. Disse: “Peggiori della morte?” Potei assicurargli di no».
«E trasformare il Bue in porcellino d’India. Ma, la cura esiste o no?»
«Anche lei vuole trasformarsi in porcellino d’India?»
«Per adesso mi accontenterei di sapere in che consiste la cura e come è riuscito a scoprirla».



«Sono partito da una riflessione. Per riavere la gioventù, dovevo sapere dove trovarla. La gioventù splendente, senza traccia di deterioramento, esiste solo negli organismi in crescita. Quando finisce la crescita, inizia la discesa verso la vecchiaia. Anche se noi non lo notiamo, e neppure gli altri lo notano».
«Ha forse scoperto ormoni che non si ritrovano al di fuori del periodo della crescita?»
«Diciamo che ho isolato elementi che finita la crescita non sono più attivi».
«Li ha isolati e iniettati nel suo paziente?»
«Ho pensato che un organismo vecchio, benché solido, richiedeva una dose forte».
«Che cosa intende per dose forte?»
«L’equivalente di quella che agisce in qualsiasi bambino di due anni Mi segua: potevo scommettere sull’espansione o sulla giovinezza. Ho scommesso sulla giovinezza e ho vinto».
«Che sarebbe successo se vinceva l’espansione?»
«Il Bue sarebbe scoppiato come il rospo di La Fontaine».
«Non è scoppiato?»
«È prevalsa la giovinezza. L’organismo ha tollerato quell’impatto generalizzato. È vero che avevo avuto la precauzione di rafforzare le cartilagini».
«Devo concludere che il suo paziente ha recuperato la giovinezza ed è felice?»
«Felice, no. C’è stata una considerevole espansione che il Bue, come le ho detto, ha tollerato bene. Fisicamente, la prego di capirmi, perché quanto a stato d animo non si è più ripreso».
«Lei crede che si riprenderà?»
«Ne dubito».
«Il suo paziente non prende forse le cose troppo di petto?»
«Direi piuttosto che il cambiamento l’ha sorpreso».
«Un cambiamento in positivo?»
«Da un lato, quello del ringiovanimento, sì senz’altro, ma c’è l’altra faccia della medaglia. Si metta nei suoi panni. Consideri che un bambino di due anni triplica la sua statura».
«Non mi dica che l’ha fatto triplicare, quel poveraccio?»
«Ma che cosa le viene in mente? Per una cosa del genere dovranno passare diciotto o vent’anni; ne sono passati solo cinque. Già è enorme».
«Più di due metri?»
«Molto di più. Pensi che il Bue è cresciuto come un bambino di due anni che misurasse un metro e ottanta...».
«Pover’uomo. È seccato?»
«È veramente abbattuto. Forse credeva che gli effetti negativi di cui gli avevo parlato sarebbero stati vertigini o qualche sfogo della pelle. Come tutti, crede che il male che lo affligge sia il peggiore del mondo. Giunse a chiedermi di dargli qualcosa per frenare la crescita».
«Gliel’ha dato?»
«Gli ho prescritto dei placebo, dei rimedi innocui. Sa: “aqua fontis, panis naturalis”. Avevo già sperimentato abbastanza a spese delle sue ghiandole. Cercai, questo sì, di fargli compagnia, di confortarlo».
«Mi sembra bello da parte sua».
«Capirà, un gigantismo di quel genere equivale all’esilio. Per il mio paziente non ci sono donne, ne cinema, ne letti, ne automobili, ne case. Gli appartamenti moderni hanno i soffitti così bassi! E poi, il povero Bue è un timido. Si vergogna a farsi vedere».
«Ha avuto la fortuna di incontrare un medico compassionevole».
«Fino a un certo punto soltanto, fino a un certo punto. In questa vita precaria niente dura, neanche i nostri buoni sentimenti. Arrivò il giorno in cui mi stancai della compassione e buttai tutto a ridere».
«Davanti alla sua stessa vittima?»
«Sì, una bestialità. Il Bue, durante una delle mie visite, perché adesso ero io a visitarlo, mi disse che finché gli fossero bastati i soldi si sarebbe rinchiuso in casa, ma che probabilmente in un futuro non troppo lontano avrebbe dovuto lavorare».
«E quale lavoro avrebbe fatto?»
«La stessa cosa gli chiesi io. Mi disse: “II mostro in un circo”. La sua risposta mi parve così appropriata e così assurda, che mi venne voglia di ridere. Gli dissi: “A volte mi pare che lei ci provi gusto a lamentarsi. Molta gente soffre perché è nana. Nessuno soffre perché è alto”.Stava per rispondere, perché pensava che parlassi sul serio, ma vedendo la mia faccia esitò, quasi non potendo credere che scherzassi con la sua disgrazia. Dopo avermi guardato con aria sconcertata, mi prese per il collo e mi scrollò come un uccellino».
«Scrollato da un gigante simile, chi non sarebbe sembrato un uccellino?»
«Io più di altri. Per caso mi salvai dalla morte. Mi lasciò tutto pesto e dolorante».
«L’ha più rivisto?»
«Certo. Forse lei ha ragione a dire che sono un uomo contraddittorio. Prima faccio crescere il Bue e poi mi sento colpevole. Conosco i miei difetti, ma non sempre mi correggo».
«Siamo tutti uguali. Mi racconti come andarono questi incontri».
«Il Bue, che è un uomo ostinato, mantenne il suo risentimento. Gli incontri erano penosi per entrambi. Senza interromperli del tutto, ne diminuii la frequenza. Allora notai in me una reazione poco ammirevole».
«Che cosa notò?»
«Quando stavo con lui mi sentivo compunto, quasi vergognoso di aver provocato la sua disgrazia. Ma bastava che non lo vedessi per due o tre giorni, perché dimenticassi senso di colpa e dolore. Mi sentii perfino incline ad apprezzare il lato comico della storia».
«Anche se questo lato comico esiste, non credo che lei sia la persona più indicata per apprezzarlo».
«Se almeno lo avessi fatto nel segreto della mia coscienza...».
«L’ha offeso?»
«Venne un giornalista. Quando sono intelligenti, mi sento a mio agio con loro e mi pare una meschinità non parlar loro apertamente. La mia convinzione che tutto sia precario mi porta a pensare che anche il futuro lo sarà e che nulla ha importanza. Credo, questo sì, nel singolo momento, come se fosse un mondo a sé, l’unico mondo definitivo, e dico tutta la mia verità».
«Mi piacerebbe sapere in che modo queste riflessioni generali influirono sulla sua conversazione con il mio collega».
«In modo irreparabile. Feci scherzi e confidenze. Fui indiscreto. Scommettiamo che non indovina cosa dissi?» «No».
«Dissi che fin dal principio avevo previsto la crescita del mio paziente e che, dominato dalla curiosità e perché la situazione mi divertiva, avevo portato l’esperimento fino alle sue ultime conseguenze».
«Il Bue le ha fatto causa?»
«No».
«Meno male».
«Molto peggio invece. Mi chiamò per dirmi che aveva letto sul giornale l’intervista e che mi avrebbe ucciso. Disse: “Siccome per buona parte della mia vita l’ho rispettata, adesso non voglio coglierla di sorpresa. Si ritenga avvisato”».
«E lei che fece?»
«Le valigie. Partii con il primo aereo. Il Bue mi seguì, a quanto mi dissero, in un aereo da trasporto. Percorremmo tutta l’Europa. Finora, io l’ho sempre preceduto, anche se inseguito da vicino, mi creda. Non sa con quale precipitazione ho dovuto abbandonare città in cui mi trovavo bene».
«Non è che qualche volta se ne sarà andato perché ero arrivato io e lei ha creduto che si trattasse del suo paziente?»
«Non è possibile confondersi. Per quante precauzioni prenda, il povero diavolo attira l’attenzione. È per questo che sono ancora vivo. Senta cosa è successo al Grand Hotel di Stoccolma. Insistevano a portarmi un giornale, scritto in svedese!, che facevano scivolare sotto la porta della mia stanza. Una mattina, mentre mi preparavo a una piacevole colazione, raccolsi il giornale e guardando una fotografia dissi a voce alta: “Non sapevo che a queste latitudini si festeggiasse il carnevale”. Mi misi gli occhiali, perché senza vedo tutto sfocato, e non riuscii a trattenere un gemito. La fotografia non mostrava, come avevo creduto, il gigante di un carro mascherato. Mostrava il mio gigante, il Bue, circondato da abitanti di Stoccolma, che lo guardavano sbalorditi».
«E lei fece di nuovo le valigie?»
«E presi il primo aereo, diretto alle Baleari. Da allora non passo un giorno, in qualsiasi posto mi trovi, senza domandare, nei ristoranti, negli alberghi, nei caffè, nei chioschi di giornali e riviste, dovunque sia!, se per caso non hanno visto un gigante».
«Non arriverà anche qui?»
«Oggi almeno, no. Viaggia a piedi e, quando un camionista si impietosisce, sul rimorchio del camion. Qualcuno mi ha detto che ieri lo hanno visto nella zona di Dolder, vicino a Zurigo. Anche se in questa casa non corro rischi (la porta è solidissima e ho fatto mettere le inferriate alle finestre), per maggiore sicurezza domani tolgo le tende e parto per l’Italia».
«Sarebbe meglio anticipare il viaggio».
«Crede?»
«Sto pensando che forse l’ho visto lungo la strada».
«Quel mostro non si stanca di perseguitarmi. Dove l’ha visto?»
«Qui vicino. Venivo da Ginevra, per la strada di Briga. A un tratto qualcosa colpisce il fianco destro dell’automobile e ho una visione stranissima».
«Com’è stato?»
«E durato solo un secondo. Ho creduto di sognare. Dalla tormenta di neve esce una gigantesca apparizione e cade sulla macchina, con le braccia aperte».
«L’avrà ucciso?»
«Credo di no».
«Allora è meglio andarcene subito».
«Ci metterà un po’ ad arrivare. Sicuro che l’urto l’ha lasciato malridotto».
«Ad ogni modo, lei ed io ce ne andiamo. Non appena avrò trovato il libro che stavo leggendo».
«Dove andiamo?»
«Lei mi segue, con la sua macchina, fino a Crevola, e di lì prende la strada che va a Locarno. Io andrò a Milano. Non voglio che per colpa mia le succeda qualcosa».
«E dopo, lei che cosa farebbe se fosse in me? Le pare un’imprudenza spedire la nostra conversazione perché venga pubblicata?»
«Faccia come vuole. Che cos’è?»
«Cosa?»
«Non sente? Bussano».
«Credo che abbia ragione».
«Bussano alla porta».
«Non apra».
«Non si preoccupi».
«Se non apriamo, dopo un po’ se ne andrà?»
«Meglio abituarci all’idea di un assedio. Abbiamo viveri per qualche giorno».
«Ha sentito? Come se spezzassero del legno. Avrà abbattuto un albero?»
«Ha abbattuto la porta. Vado a riceverlo. Meglio così: non posso passare la vita a fuggire. Lei rimane qui, tranquillo. Sono medico. So come calmare i pazzi furiosi».
Che faccio adesso? A poco servirà il mio aiuto contro un essere capace di abbattere una porta come quella. Fuggire dalla finestra è impossibile. Le inferriate sono troppo vicine tra loro. I gemiti del professore mi mettono il nervoso. Non riesco a pensare. Non importa: manterrò la calma. Questo colpo secco dev’essere un mobile che il gigante ha tirato contro il muro. No: nell’ingresso non ci sono mobili. Se non è stato un mobile, era il corpo del povero Haeckel. Adesso non si sente più nulla. È orribile questo silenzio. Mi sembra di vedere cosa sta succedendo dietro la porta. Il cadavere di Haeckel per terra, il gigante che si guarda intorno e si interroga sul da farsi. Benché gli costi fatica pensare, d’un tratto ricorda che un criminale non lascia testimoni. Perlustrerà la casa. Speriamo che non inizi da questa stanza. Sento scricchiolare i gradini. Li salgono passi lenti e pesantissimi. Magari riesco a scamparla. Non appena calcolerò che il gigante è arrivato al piano di sopra, corro fuori, prendo la macchina e me ne vado. Locarno è troppo vicina. Non mi fermerò fin quando non sarò arrivato in Italia. In Sicilia. Ho sempre desiderato conoscere la Sicilia. Mi guarderò bene, se riesco a salvarmi, dal pubblicare l’intervista. Il gigante non avrà nulla contro di me. I passi continuano. La scala non finisce mai. Non posso crederci. Sta scendendo. Ha cambiato idea e vuoi cominciare la perlustrazione dal piano di sotto. Nascondo il registratore, dietro alcuni libri, perché non lo distrugga, se arriva qui. I passi, che non vorrei sentire, si avvicinano. La porta si apre. Spengo il registratore.


Adolfo Bioy Casares (1914-1999), da Historias desaforadas, 1986

(Tratto da L’orologiaio di Faust e altri racconti, Edizioni Studio Tesi 1990 — trad. italiana di Fausta Antonucci)

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