La spada e le foglie — Italo Calvino

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(Ashiyuki, Nakamura Utaemon III, 1826 —The Barry Rosensteel Japanese Collection, Università di Pittsburgh)


Al Museo Nazionale di Tokyo c’è un’esposizione d’armi e armature dell’antico Giappone. La prima impressione è che gli elmi, le corazze, gli scudi, gli spadoni avessero come primo intento non quello di difendere o di colpire ma il fare spavento, l’imporre un’immagine terrorizzante agli avversari.
Le maschere di guerra si contorcono in smorfie crudeli e minacciose sotto gli elmi sormontati da corna, da pinne, da ali grifagne, sulle corazze sontuose che gonfiano il torace tutto fiocchi e spunzoni.
Chi come me a frequentare le armerie rinascimentali d’Occidente prova il giulivo distacco epico d’un lettore di poemi cavallereschi (la grande cavalcata della sala delle armature al Metropolitan Museum di New York è per me una delle meraviglie del mondo) qui per la prima volta pensa a questi oggetti non come a fantasiosi giocattoli ma in vista del messaggio che volevano trasmettere in situazione, cioè come oggi si guarderebbe un carro armato su un campo di battaglia. La mia reazione è immediata: mi metto a scappare.
Percorro sale e sale di vetrine in cui sono esposte nude lame di spada, o specie di sciabole ricurve, di lucido ferro temprato, affilatissime, senza impugnatura, posate ognuna su un tovagliolo bianco. Lame e lame e lame che a me paiono tutte uguali, eppure sono accompagnate ognuna da etichette con lunghe didascalie. Capannelli di gente sostano davanti a ogni vetrina, osservano spada per spada con occhi attenti e ammirati.
I più sono uomini; ma è domenica, il museo è affollato di famiglie; a contemplare le spade ci sono anche donnette, bambini. Cosa ci vedono in quei coltellacci sguainati? Cosa li affascina? La mia visita all’esposizione si svolge quasi a passo di corsa; il luccicare dell’acciaio trasmette una sensazione più auditiva che visiva, come rapidi sibili taglienti nell’aria. I drappi bianchi m’ispirano un raccapriccio chirurgico.
Eppure so bene che l’arte della spada è in Giappone un’antica disciplina spirituale; ho letto i libri sul buddismo zen del Dr. Suzuki; ricordo che il perfetto Samurai non deve mai fermare la sua attenzione sulla spada dell’avversario, né sulla propria, né sul colpire, né sul difendersi, ma deve solo annullare il proprio io; che non è con la spada ma con la non-spada che si vince; che i maestri forgiatori di spade raggiungono l’eccellenza della loro arte attraverso l’ascesi religiosa. So bene tutto: ma altro è leggere una cosa nei libri, altro è capirla nella vita.
Pochi giorni dopo eccomi a Kyoto: passeggio per i giardini che furono percorsi da poeti squisiti, da imperatori filosofi, da monaci eremiti. Tra i ponticelli ricurvi sui ruscelli, i salici piangenti che si specchiano sugli stagni, i prati di muschio, gli aceri dalle foglie rosse a forma di stella, ecco che mi tornano alla mente le maschere guerriere dalle smorfie spaventevoli, l’incombere di quei guerrieri giganteschi, il filo tagliente di quelle lame.
Guardando le foglie gialle che cadono nell’acqua mi ricordo d’un apologo zen che solo ora forse mi sembra di capire.
L’allievo d’un grande fabbro di spade pretendeva d’aver superato il maestro. Per provare quanto le sue lame erano affilate, immerse una spada in un ruscello. Le foglie morte portate dalla corrente passando sul filo della spada venivano tagliate in due di netto. Il maestro immerse nel ruscello una spada forgiata da lui. Le foglie correvano via evitando la lama.


Italo Calvino (1923-1985), La spada e le foglie, 1976

(Da Collezione di sabbia, Garzanti 1984)

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